Papaioannou omaggia Pina Bausch

In esclusiva per l’Italia, a Catanzaro l’artista greco ha presentato, con il Tanztheater Wuppertal, “Since she/Seit sie”, la creazione con la quale la compagnia ha aperto a nuove collaborazioni con altri coreografi, “nello spirito di Pina”

C’è una montagna di lastroni neri che sembrano ardesia, disposti in declivi con delle crepe dalle quali usciranno e scompariranno figure umane. La luce è crepuscolare lassù in cima, dove si staglieranno altre figure in controluce. Piantato da una donna dopo averlo faticosamente trascinato risalendo la china, c’è un albero, poi scosso e tagliato dalla foga di un uomo che si autoinfliggerà una punizione corporale. Ripiantato, le foglie saranno portate via dal vento. C’è, sempre in sottofondo, un flusso musicale – da Wagner a Mahler, da Bach a Verdi, da rumori catturati in presa diretta e altre sonorità tra cui Christos Costantinou, Tom Waits, Marika Papagkika – che ammanta le azioni.

La prima è una lunga processione di sedie in proscenio. Sono disposte in fila dai 17 danzatori scorrendole di mano in mano, camminandovi sopra in equilibri precari, e portandole poi via inghiottite da un uscio laterale, buco nero dal quale erano tutte uscite. Le ritroveremo nella lotta tra due performer e nella sequenza finale, dove un uomo, in piedi sopra una di esse, le caricherà sulle sue spalle incastrandole una dentro l’altra per poi cadere intrappolato sotto il cumulo. Quelle sedie sono un dichiarato omaggio a Pina Bausch, alla struggente poetica di Café Müller, spettacolo icona della grande coreografa tedesca. Chiamato nel 2018 dal Tanztheater Wuppertal, primo artista a creare per la celebre compagnia dopo la scomparsa della Bausch dieci anni fa, il greco Dimitris Papaioannou (classe 1964) ha firmato uno spettacolo di rarefatta potenza, Since she/Seit sie (Amsterdam, Atene, Londra, Parigi, le precedenti tappe, e, in esclusiva per l’Italia, a Catanzaro, per il festival Armonie d’Arte diretto da Chiara Giordano).

“Da quando lei” – traduzione del titolo – dice quanto la Bausch sia presente nell’immaginario formativo e nello spettacolo di Papaioannou, senza però volerla imitare, bensì inglobandola (o traendola) nel (o dal) suo visionario affresco che unisce danza, pittura e scultura, cifra artistica che caratterizza da sempre l’artista greco, geniale manipolatore di materiali e corpi. Eppure ci sono infinite suggestioni, immagini, visioni che ci riconducono a Bausch. Basterebbe la mise delle donne in abiti lunghi da sera e tacchi a spillo, e gli uomini in completi neri; il movimento da passerella degli interpreti; il lento e poi veloce ballo di coppie sulle note di un valzer; i frutti da mordere (qui mandarini; gli sguardi ammiccanti verso il pubblico; la donna dai lunghi capelli al vento, fatta roteare su un tavolo dal gruppo di uomini, fulgida come la polena di una nave. E molto altro ancora. Qui però non ci sono i rituali sociali e le ossessioni private tipiche di Bausch.

La grammatica di Papaioannou, la visionarietà del suo universo poetico vira, tra passato e presente, nel simbolismo della mitologia, nei rimandi di archetipi, nei paesaggi onirici, con quel ritmo lento, intensamente visivo che attinge sia dalla teatralità stilizzata di Bob Wilson sia dal senso dell’assurdo di Bausch, sia dagli elementi materici dell’Arte Povera di Jannis Kounellis: il tutto stratificato con la sua severa estetica del mito e del corpo umano. C’è, infatti, fra il resto, quel distorcere i corpi ignudi in ingannevoli smembramenti degli arti creando magistrali composizioni – come la donna con i dieci arti inferiori o che fuoriesce dalle gambe di un uomo tirata dai capelli e della quale si vede solo la testa –. E se l’uomo appare come l’artefice della creazione umana estraendo da una feritoia un suo simile lì intrappolato al quale realizza delle scarpe, poi costruendo a un altro dei tubi di legno dentro il suo abito e facendolo camminare goffamente a quattro zampe, è la donna, il punto focale della drammaturgia.

Estratta da veli di carta strappateli di dosso; svelata color oro dal nero dipinto su tutto il corpo; trasportata avanti e indietro da rulli a terra; uscita, come in un quadro botticelliano, da varchi di arbusti tenuti da uomini sedotti; esposta come un San Sebastiano trafitta da sottili bacchette, o infilate a raggiera sulla folta chioma nera somigliante a una Madonna; dominatrice su un uomo ridotto carponi a mangiare da una ciotola. Dei corpi, nel frattempo, rotolano a testa in giù dalla montagna come in un girone dantesco dal quale si erge ancora una donna esibendo uno scettro, mentre un’altra mette una maschera da Minotauro, indossata pure da un uomo distante da lei.

Da un ballo stile sirtaki si passa allegramente a un’esibizione di gambe femminili alla quale si aggiungono gli uomini. L’euforia si estende a un’escursione su un barcone, tutti costipati all’interno di un tavolo capovolto e fatto scivolare sui rulli: viaggio che ben presto si tramuta tristemente in un lento ondeggiare verso un altrove sconosciuto, forse in cerca di salvezza, con un rimando che ci ricorda la cronaca del nostro tempo. In questo potente spettacolo squarciato appena da segni beffardi, irrompono la vita e la morte, la storia, il passato e il presente, l’umanità di ieri e di oggi, un viaggio dell’uomo magnificamente evocato dal genio Papaioannou. Posizionati, infine, davanti ad una parete dorata per una foto di gruppo, i performer lentamente scompaiono dopo aver ognuno accarezzato con la mano il pannello lasciando una striscia che repentinamente si oscura per luccicare e consegnare a noi la visione di un cielo stellato.

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