Paolo Borsellino, trent’anni dopo. I misteri irrisolti

I misteri irrisolti delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, l’agenda rossa sparita, i depistaggi, le condanne sbagliate, i processi da rifare. Ancora oggi un mistero: chi ha guidato, oltre i capi della mafia, la mano di chi ha innescato le bombe e ha ucciso undici persone? Per approfondire, leggi la rivista Città Nuova di luglio.
Da sinistra, Giovanni Falcone e Paolo borsellino. AP photo/files

L’ultimo atto appena dieci giorni fa. La prescrizione copre con una coltre l’ultimo dei processi istruiti sulla strage di via D’Amelio. Prescritte le accuse nei confronti di due dei tre poliziotti accusati di aver depistato le indagini sull’attentato costato la vita al magistrato antimafia Paolo Borsellino. Per Mario Bo e Fabrizio Mattei il tempo dei processi e delle inchieste è finito. Lo stesso accade per il terzo poliziotto, Michele Ribaudo: per lui arriva l’assoluzione «perché il fatto non sussiste».

Chi sono Bo, Mattei e Ribaudo? Sono nomi meno noti alle cronache. Le indagini infinite e complesse che in questi anni si sono succedute sull’assassinio di Paolo Borsellino e degli agenti della sua scorta (con i processi uno, bis,  ter e quater), seguite dagli innumerevoli ricorsi e infine dai processi per depistaggio non hanno ancora restituito una verità assoluta su ciò che è accaduto in via D’Amelio, su chi siano state le “menti raffinatissime” che negli anni ’90 cercarono in tutti i modi di affiancare la mafia, di indirizzarne le azioni e di impedire ai magistrati del “pool antimafia” di affrontare e sconfiggere la criminalità organizzata.

I falsi collaboratori di giustizia riuscirono, in una prima fase, a sviare le indagini: Vincenzo Scarantino, Salvatore Candura e Francesco Andriotta, secondo l’accusa dei pm, autoaccusandosi e raccontando fatti mai accaduti avrebbero coperto i veri responsabili. Ancora oggi i veri responsabili sono in gran parte ignoti, nonostante i tanti processi, i ricorsi, le revisioni dei processi, le condanne, alcune delle quali all’ergastolo, che sono state inflitte ingiustamente e che altri processi hanno dovuto far cadere.

C’è voluto il successivo pentimento di Gaspare Spatuzza per scoprire il depistaggio che aveva portato persino ad infliggere sette ergastoli, poi cancellati dal processo d’appello di Catania. Sette persone che erano state accusate ingiustamente hanno potuto riguadagnare la libertà.

Dopo le assoluzioni, le condanne dei mandanti e le numerose revisioni, è arrivato il processo per gli investigatori che si ritenevano “collaterali” alla mafia e che, con i depistaggi, avrebbero cercato di evitare i processi ai veri responsabili. I tre, come abbiamo visto, sono usciti dai processi, per prescrizione o altro.

Trent’anni. Questi trent’anni hanno ripetutamente dimostrato che dietro le stragi non c’è solo Cosa Nostra, ma anche altri che hanno voluto fermare l’azione di due uomini integerrimi dello Stato, i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Uomini dello Stato e delle istituzioni anch’essi, nomi su cui Borsellino aveva già posato lo sguardo, come aveva fatto ripetutamente intendere nelle ultime settimane di vita, quei famosi 57 giorni in cui è sopravvissuto all’amico Giovanni Falcone. Segreti che sono andati via per sempre insieme all’”agenda rossa” che Pasolo portava sempre con sé e che è misteriosamente sparita subito dopo la strage. Qualcuno, nell’immediatezza dell’esplosione di via D’Amelio, non si preoccupò tanto dei morti, dei feriti e dei soccorsi. Era lì, in attesa per recuperare tra le macerie delle esplosioni quell’agenda preziosissima.

Chiudiamo con le parole di Paolo Borsellino, ormai divenute celebri: «Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri».

Paolo Borsellino lo aveva capito e lo aveva previsto. Ma quei segreti, trent’anni dopo, sono rimasti tali. Lo Stato deviato finora è riuscito nel suo intento.

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