Pandemia, cosa ci possono dire i dati

Alcune considerazioni sull’andamento dei contagi e le evidenze che emergono dai dati disponibili. La nostra interazione ospite/parassita con il SARS-COV-2 è significativamente diversa da quella dei primi mesi di pandemia: ne stiamo prendendo atto come comunità scientifica e civile
Pandemia. (AP Photo/Gregorio Borgia)

Osservando l’andamento delle diagnosi e dei ricoveri per Sars-COV-2 in questo periodo saltano all’occhio le vistose differenze con le fasi precedenti della pandemia.

Il trend sembra indicare che stiamo arrivando in cima alla salita: rallentano tutti gli indicatori precoci (incidenza settimanale, percentuale di positivi su tamponi); rallenta l’incremento di casi e di ricoveri, anche se ci vorranno diversi giorni, come di consueto, perché dopo il picco di casi i ricoveri e i decessi quotidiani ritornino a calare.

Volendo tirare le somme, le differenze con i picchi precedenti balzano all’occhio facilmente. In questo inverno abbiamo avuto un’incidenza di oltre 5 volte i picchi precedenti, che però è stata seguita dalla metà dei ricoveri ordinari e da un terzo dei ricoveri in Terapia intensiva; questo anche senza considerare la (doverosa) revisione del sistema dei conteggi dei positivi in ospedale, che attualmente non tiene in considerazione lo stato clinico del paziente e non distingue fra la positività ai test e il criterio clinico di infezione sintomatica.

Interpretare i numeri di oggi richiede delle accortezze e delle aggiustature, che vanno impostate correttamente, soprattutto per quello che riguarda la riflessione sul peso delle varianti virali. 

L’argomento è molto tecnico e quindi la divulgazione corretta è difficile; si rischiano altrimenti semplificazioni erronee, grazie alle quali si attribuiscono ai vari “lineage” virali caratteristiche a volte verosimili, altre volte molto meno.  Così rischiamo di avere una sorta di “album delle varianti virali”, ciascuna con le sue caratteristiche cliniche e una “personalità epidemiologica” (varianti, per restare in tema, di vecchi adagio come “il virus è diventato più buono” o dell’inossidabile “è clinicamente morto”).

Più prudente cercare di guardare i numeri e trarre in questo modo alcune conclusioni. 

Anzitutto va precisato che non è inverosimile che il Sars-Cov-2, diffondendosi così tanto nella popolazione mondiale, cambi in maniera significativa la sua espressione clinica; per poterlo dire con certezza abbiamo però bisogno di confrontare gli esiti di malattia di coloro che si infettano oggi con quelli di coloro che si infettavano all’inizio, cosa che non è sempre possibile per una serie di ragioni:

1) ci vogliono molti casi con un sequenziamento completo per confrontare gli esiti di infezione da (per esempio) delta e omicron; questi dati devono essere abbastanza numerosi da permettere una standardizzazione per tutte le variabili che influenzano il fenomeno “esito di malattia” (età, presenza di altre patologie, presenza di precedente infezione, stato vaccinale)

2) per ovviare a questo fenomeno, di solito si usa confrontare i dati di oggi con i dati disponibili nel passato; ma così andiamo a confrontare una popolazione quasi tutta immunizzata (per via naturale o per vaccinazione) con una popolazione “vergine”, e non possiamo sapere se i casi di oggi (dovuti per lo più a omicron) sarebbero stati ugualmente “leggeri” nella popolazione del 2020

3) dal 2020 ad oggi sono disponibili protocolli per il monitoraggio precoce, schemi terapeutici per la gestione della malattia severa, terapie di prima linea per la prevenzione delle forme gravi (anticorpi monoclonali e antivirali di ultima generazione) che influenzano l’esito e nuovamente ci impediscono di dire se la differenza è dovuta al virus o a questi altri fattori.

L’unico confronto che possiamo fare nella popolazione di oggi, a parità di tipo di virus che circola e di cure disponibili, è quello degli esiti di malattia fra vaccinati e non vaccinati.

Questo lo fa, come sappiamo, l’ISS ogni venerdì, come si può vedere nel sito della sorveglianza integrata:
https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/sars-cov-2-sorveglianza-dati

In questo monitoraggio è riportato con chiarezza il diverso rischio che si corre affrontando l’infezione da vaccinati e non vaccinati: e questo dato è perfettamente in grado di spiegare il diverso scenario epidemiologico.

In sintesi, la situazione è cambiata, quale che sia il contributo di ciascuna delle cause possibili. La nostra interazione ospite/parassita con il SARS-COV-2 è significativamente diversa da quella dei primi mesi di pandemia: ne stiamo prendendo atto come comunità scientifica e civile.

L’orientamento attuale è quello di potenziare i fattori che ci stanno proteggendo, come il mantenimento di una elevata immunizzazione attiva con la vaccinazione e lo sviluppo di terapie precoci. Nel contempo, è necessario rivedere le misure finalizzate alla sola riduzione della circolazione virale, come le restrizioni per zone e la quarantena dei contati asintomatici, il cui rapporto costo/beneficio è divenuto progressivamente meno vantaggioso ed è sempre meno accettabile.

In questa revisione si spera anche di vedere allineata al resto della società la gestione della pandemia nelle scuole, soprattutto fra i piccoli, attualmente sottoposti ad un sistema “parallelo” di regole penalizzanti e disincentivanti verso la vaccinazione.

Proprio dal disagio provocato da queste misure nei bambini e nei ragazzi dovrebbe ripartire la sfida della convivenza con la nuova patologia virale; il futuro sarà la gestione degli esiti di malattia in chi non è protetto da un virus diffuso ormai in maniera ubiquitaria e, soprattutto, l’obbiettivo di garantire i determinanti di salute legati alla normalità della vita di relazione: lavorativa, scolastica e affettiva.

 

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