Palloni sgonfiati

Acqua cristallina fra gli scogli, profumo di salvia selvatica, sole mitigato da una brezza leggera. Le isole della Dalmazia sanno farti riconciliare con le piccole cose d’ogni giorno. Niente tv in questi ultimi scampoli di vacanza: solo giornali, ma del giorno prima. Il mondo in differita. Così hanno scelto inaspettatamente i figli: una situazione inusuale soprattutto il digiuno di calcio per una famiglia pallonara. Nessun segno di astinenza, anzi qualche critica riflessione sul calcio miliardario in agonia. L’ipotesi di un anno senza pallone in tv non ci troverà impreparati. La paradossale schizofrenia fra immagine e realtà del calcio si è consumata, fra i temporali d’agosto, sotto gli occhi di tutti: siamo il paese al mondo in cui più si è abusato della simbologia pallonara, con un premier presidente di calcio, un partito che si chiama Forza Italia ed i suoi parlamentari “azzurri”. Eppure il calcio vero, quello giocato, rischia di sparire. “Tutta colpa delle tv che non pagano i diritti di immagine” si è sintetizzato un po’ troppo semplicisticamente. In realtà, se il campionato parte in ritardo, non è solo per la mancanza di contratti con le società più piccole che non interessano alle pay-tv. Dietro c’è dell’altro. I club di serie A con uno scoperto che supera il miliardo di euro. La Lega che ha voluto un calendario di partite “sbriciolate” sull’intera settimana ed in orari assurdi per dilatare a dismisura l’offerta di spettacolo calcistico. La Federazione che, solo per rispettare impegni televisivi, ha organizzato ad agosto una inutile amichevole con la Slovenia ed accetta di far giocare gli azzurri in Azerbaijan a mezzanotte perché la Rai possa offrirci la partita all’ora di cena, quando gli spazi pubblicitari rendono di più. Non si tratta solo di conferme di una totale dipendenza del football dall’evento televisivo: sono segni di una profonda crisi di identità del gioco più amato del mondo. Molti dei nostri presidenti di club, che oggi si lamentano, hanno contribuito per anni a far impazzire i conti delle loro società, facendo lievitare in maniera sconsiderata in- gaggi e spese, illusi che un improbabile aumento all’infinito dei diritti televisivi sulle loro imprese fosse in grado di sanare ogni follia. A loro parziale discolpa occorre riconoscere che pagano più tasse dei loro colleghi europei e che subiscono le conseguenze della scomparsa del Coni e della sua materna assistenza economica, dopo che lo stato ha arrogato a sé i proventi delle scommesse. Ma non scordiamoci che su alcuni di loro grava, in questa fase, l’ombra del conflitto di interessi politica- televisione-dirigenza sportiva. E non scordiamoci neppure la sfrontatezza con cui qualche mese fa il mondo del calcio è arrivato a chiedere, per sfruttare i benefici fiscali della Tremonti-bis, il permesso di poter considerare i calciatori come “beni strumentali”, equiparabili cioè ad un capannone o alle attrezzature per l’agricoltura. La risposta fu, per fortuna, negativa. Da anni circolavano voci isolate, ed irrise, che segnalavano i rischi di un calcio drogato dalla televisione e, prima o poi, sedotto ed abbandonato dalla stessa. Ora il mondo del pallone è davvero sull’orlo dello schianto, in piena crisi di astinenza ed alla disperata ricerca di un metadone governativo. La dipendenza dalle reti televisive l’ha stravolto, ne ha confiscato la poesia, riducendone l’immagine a prodotto seriale. I suoi protagonisti fanno più spot che gol, incapaci di vincere uno straccio di coppa o di conquistare un quarto di un mondiale. E dopo essersi venduto l’anima alla televisione, il calcio scopre di valere oggi meno di un quiz o di una telenovela. Perché, come dicono con gelido cinismo, ma con innegabile lucidità, i dirigenti Rai, ormai di calcio ce n’è troppo. E troppi hanno mangiato e stanno mangiando alla sua mensa: presidenti spensierati, calciatori di dubbie qualità pedatorie, procuratori ingordi. Una sequenzalunga di personaggi, giù giù fino agli spettatori che, emuli di una logica dell’obiettivo raggiunto ad ogni costo, hanno taroccato la carta aprendo buchi nelle pay-tv. Eppure oggi il sistema deve cercare di trovare soluzioni in sé stesso, se vuole proteggere la sua autonomia e conservare l’amore dei tifosi. Magari diffondendo direttamente le immagini televisive delle partite grazie ad una propria emittente, sfruttando meglio le potenzialità del merchandising, ovvero gli introiti indotti legati all’immagine della squadra, gestendo in prima persona gli stadi, oggi vuote cattedrali di cemento. Ma occorrerà anzitutto partire da una ragionevole diminuzione delle spese e da una rinnovata presa di coscienza generale. Il fatto di rappresentare la quinta industria del paese non autorizza il calcio a chiedere lo “stato di calamità”: un atto di dispregio in un agosto ferito dalle alluvioni e di insensatezza civile di fronte alle nuove povertà. A cominciare potrebbero essere i giocatori stessi e gli allenatori, forse le uniche categorie, insieme ai tifosi, cui il calcio stia veramente a cuore: c’è chi, anche di questi tempi, dimostra di avere senso della misura. Come il Chievo che ha ridato fiducia a giocatori ancora di valore come il “vecchio” Bierhoff, come Di Livio, rimasto a Firenze accettando uno stipendio da dilettante, come O’Neall esclusosi dalla rosa per non gravare sui bilanci del Perugia. È emblematico che in tempi di eccessi ci venga a mancare la voce saggia ed amica di Bruno Pizzul, arresosi alla pensione. Le sue non erano solo telecronache, che pure hanno segnato un epoca, ma l’espressione di uno stile di sobrietà d’altri tempi di fronte ai boati di questo calcio schizzato. Alla sua voce, priva di retorica, concedevamo di ricordarci che “ragazzi, stiamo pur sempre parlando solo di un gioco”.

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