Paglia: tra impazienza e amore

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Ecumenismo fa oggi rima troppo spesso con scoraggiamento… Dobbiamo distinguere innanzitutto il contraccolpo psicologico delle attese e la realtà dell’ecumenismo, che ha fatto passi in avanti giganteschi, soprattutto se noi pensiamo ai secoli che ci distanziano: con le antiche Chiese d’oriente 1500 anni, con gli ortodossi 1000, con le Chiese della Riforma 500. In quarant’anni abbiamo bruciato secoli e secoli! Quindi la sensazione di stallo è psicologica e asimmetrica rispetto alla storia, perché solo alcuni anni fa era addirittura inimmaginabile quanto stiamo vivendo. Indubbiamente al Vaticano II è stata tale la forza di respiro ecumenica che ovviamente c’è stata come una gioiosa ubriacatura, direi una primavera che ha permesso di bruciare diffidenze, di risolvere divisioni teologiche, di far sorgere un clima nuovo, di rendere più immediata e continua la preghiera. E oggi? L’ondata d’aria fredda che si respira deriva dall’apertura delle finestre dell’est, da una globalizzazione poco guidata nei rapporti tra cattolici e ortodossi, un ripiegamento delle culture e delle Chiese su sé stesse. Dagli anni Novanta in poi c’è stata una sensibile accentuazione di ciò che ci identifica rispetto a ciò che ci unisce. Forse era necessario tutto ciò: l’ecumenismo non è un gioco al ribasso o un equilibrio di formule, tanto meno un accordo superficiale. Si apre quindi una nuova fase. Direi che questa stasi va interpretata positivamente. Certo, da essa va tolto ciò che sa di apatia, intolleranza, impazienza, indifferenza . Come affrontare i nemici dell’ecumenismo? Sono nemici insidiosi, perché si vestono con abiti rinnovati. Si affrontano con una maggiore audacia da parte delle Chiese: nel far ciò è prioritario tessere rapporti di fraternità tra le Chiese sorelle a tutti i livelli. Bisogna sviluppare il dialogo dell’amore, che vuol dire capirsi, incontrarsi, frequentarsi, scambiarsi doni. Dialogare è l’unica risposta? Senza dubbio, è la via irreversibile dalla quale non si può tornare indietro. Direi che non ci può essere solo un dialogo di vertice o teologico con la speranza che questo risolva i problemi. Ci sono secoli di fraternità da recuperare, e non solo di teologia. Secondo lei, cosa vuol dire per un cattolico amare un anglicano come sé stesso? O un ortodosso… Vuol dire anzitutto conoscerlo in tutte le loro sfaccettature: teologiche, spirituali, umane e storiche. Questo è un grande lavoro, fatto purtroppo pochissimo. Alla conoscenza segue il rispetto: non dobbiamo forzare la loro fede, ma rispettarla. E dobbiamo chiedere che si rispetti anche la nostra. In terzo luogo va accresciuto l’amore e l’incontro che devono avvenire sul piano della preghiera – l’ecumenismo spirituale deve accelerare il passo – e sul piano della pratica, ovvero ritrovarsi con coraggio e sollecitudine in tutti quei campi in cui possiamo combattere una battaglia comune: pace, vita, creato, difesa dei più deboli, mondo più umano. Contemporaneamente bisogna accrescere gli scambi di vita fraterna, che vuol dire incontri, visite, simpatia. Come si colloca l’azione dei movimenti all’interno del dialogo ecumenico? Sono solo un supporto? I movimenti e le nuove comunità sono già l’avanguardia di tutto questo tipo di ecumenismo. Nei movimenti già si vive il futuro della Chiesa. Per la loro universalità sanno già come combattere il rischio della paura della globalizzazione. L’incontro con gli altri cristiani li ha già resi edotti in una effettiva e reale fraternità. Non dimentichiamo che in molti movimenti sono già presenti fratelli di altre Chiese cristiane . Possono essere d’esempio? Senza dubbio. Su una cosa forse dobbiamo premere l’acceleratore come movimenti: ci deve essere una più robusta concordanza anche sul piano ecumenico. Ma certamente sulle frontiere della Chiesa i movimenti sono la parte più avanzata non solo nel dialogo ecumenico, ma anche in quello interreligioso e con i non credenti. È per questo che sulle loro spalle grava un peso complesso ma affascinante. L’Italia sta conoscendo una fase di profonda trasformazione indotta dall’immigrazione, che porta con sé anche la presenza di cristiani di tante Chiese non cattoliche… Innanzitutto c’è da riscoprire, di fronte a questi nuovi scenari, una vera e propria spiritualità dell’accoglienza. Dobbiamo abbeverarci alle fonti della parola di Dio, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, riscoprendo che cosa il Signore chiede ai suoi discepoli. L’accoglienza dello straniero sarà una delle domande del giudizio universale, e su questo c’è una radicalità evangelica da riscoprire. Questa è base e fondamento di ogni ulteriore ragionamento. Ovviamente di fronte a questa nuova sfida non solo non si deve essere ingenui, ma si deve essere attenti: bisogna avere una spiritualità profonda. Il dialogo non vuol dire lasciar passare, il dialogo è parte integrante del cristiano, di quell’amore evangelico sul quale saremo giudicati. L’unico modo radicale per affrontare questo problema è sentire lo straniero come un fratello che viene da situazioni difficilissime per trovare aiuto, per vivere meglio. Dovremmo evitare che accada quel che avvenne 2000 anni fa, quando venne uno straniero e non c’era posto per lui nell’albergo. Ultimamente il card. Tettamanzi si è recato a Mosca, forse un segnale positivo. Crede nella possibilità di un incontro tra Alessio II e Benedetto XVI? Questo viaggio è stato un esempio di come oggi si debba vivere la fraternità ecumenica. Ora c’è in programma l’incontro di un centinaio di sacerdoti della diocesi di Milano in pellegrinaggio a Mosca. Ciò manifesta la possibilità di una nuova primavera di reale fraternità tra Chiese sorelle. Tutto ciò mostra l’avvicinamento forte tra la Chiesa cattolica e l’ortodossia: quella solida che c’è già con il patriarca Bartolomeo, e questa che si rafforza sempre più con l’Ortodossia russa. Al di là degli scetticismi, credo che sia possibile ritrovare una nuova primavera che ci faccia vivere la fraternità prima dell’unità piena. I primi boccioli sono visibili….

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