Padre Kolvenbach, un grande uomo, un gesuita del dialogo

Non è stato solo un semplice religioso ma la guida dei Gesuiti per 25 anni. In Libano, sotto la guerra civile, ha vissuto il Vangelo, coltivato rapporti con le altre chiese, stretto amicizie e aperto nuove vie d’unità all’interno della Compagnia e con il frastagliato mondo politico mediorientale
Padre Kolvenbach

A fine novembre padre Kolvenbach, religioso gesuita, se n’è andato. Dopo una breve malattia è tornato a quel Dio che aveva servito con grande intelligenza e capacità per tutta la vita. Aveva quasi 88 anni e dal 2008 era rientrato nella sua patria d’elezione, il Libano.

 

Di origine olandese, nel 1958 a trent’anni, Peter Hans Kolvenbach era approdato come novizio a Beirut, dove era stato ordinato sacerdote nel 1961. Ha vissuto nella capitale libanese per più di vent’anni fino al 1981, a parte i viaggi di studio.

“Un uomo semplice e affabile, riservato – scriveva Martine de Sauto su La Croix del 17 octobre 2004 –, poliglotta, specialista ben noto di lingue orientali e perfetto francofono, oltre che fine diplomatico”. Era stato nominato provinciale dei gesuiti del Medio Oriente nel 1974, un anno prima dell’inizio della terribile guerra civile che avrebbe insanguinato il Paese fino al 1990. Poi, nel 1981 era stato chiamato a Roma per dirigere il Pontificio Istituto Orientale.

 

La sorpresa, anche per lui, venne nel 1983, quando fu eletto preposito generale dei gesuiti, il cosiddetto “papa nero”. Era un momento abbastanza delicato per la Compagnia di Gesù: padre Pedro Arrupe, che aveva guidato la Compagnia dal 1965 attraverso momenti difficili, dopo il Concilio, era stato colpito da un ictus e papa Giovanni Paolo II aveva dovuto nominare un reggente per due anni. Padre Kolvenbach si ritrovò così investito di un’eredità complessa, a capo della congregazione cattolica più numerosa (all’epoca la Compagnia contava oltre 25.000 membri). Era pronto per un compito così arduo? Quando gli fu richiesto, anni dopo, p. Kolvenbach aveva risposto che a quel tempo “in Libano c’era la guerra e le nostre preoccupazioni erano prima di tutto di sapere se avremmo avuto da mangiare e da bere e se avremmo avuto l’elettricità…”.

 

 

Il senso profondo del suo lavoro per traghettare i gesuiti nel Terzo Millennio è ben espresso in una sua affermazione di alcuni anni fa: “Uomini molto diversi, senza alcuna tendenza a formare una comunità, trovano nell’amore di Cristo la forza e la motivazione per vivere da amici nel Signore. Quando persone provenienti da nazioni, etnie o caste in conflitto, segnati da esperienze ecclesiali molto diverse, si impegnano a ottenere l’unità degli spiriti e dei cuori, esse contribuiscono per questo fatto stesso alla riconciliazione umana e all’unità dei cristiani”.

 

Dopo 25 anni alla guida dei gesuiti, al compimento degli 80 anni, padre Kolvenbach rassegnerà le dimissioni dal suo servizio, che per la prima volta nella storia della Compagnia verranno accettate anche dalla S. Sede. Negli ultimi 8 anni della sua vita ha vissuto a Beirut, in comunità come semplice religioso.

 

 

A proposito del Libano, p. Kolvenbach aveva detto in una intervista del 1998: “Sebbene sia una delle regioni più esplosive del pianeta, e specialmente la tormentata città di Beirut, io ho ricevuto la grazie di vivere, di lavorare e di pregare con un popolo molto vicino alle radici del cristianesimo e alle radici della chiesa. Le condizioni di vita potevano anche essere terrificanti, ma il fatto di condividerle con la gente le rendeva naturali e bibliche”.

 

 

Ai suoi funerali, nella grande chiesa del suo “College de Notre Dame de Jahmour”, a Beirut, oltre ai gesuiti libanesi, vi era il neo-eletto preposito generale, il venezuelano Arturo Sosa Abascal (30° successore di Sant’Ignazio di Loyola). C’erano le autorità della presidenza, del governo e del parlamento libanese, e il nunzio in Libano. E poi c’erano religiosi, religiose, preti e vescovi di tutte le chiese cattoliche e di altre confessioni cristiane; e molti ex allievi, tra i quali anche il patriarca maronita Bechara Rahi, che lo aveva avuto come insegnante. Nella messa, anche in onore del poliglotta e linguista padre Kolvenbach (pare che parlasse 15 lingue), si è pregato o cantato in almeno sette lingue (francese, arabo, inglese, spagnolo, italiano, latino e armeno). Il patriarca armeno-cattolico ha voluto espressamente onorare il religioso, “un grande amico degli armeni, di cui amava la lingua e la cultura con particolare predilezione”.

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