La pace, lo sappiamo bene, non è un automatismo che segue una tregua, la cessazione delle ostilità tra i contendenti. La pace richiede un lungo cammino di accertamento delle responsabilità, di riconciliazione, se possibile di perdono, di riparazione delle ingiustizie e di nuovo avvio della vita comune. Al di là dei trionfalismi, al di là dei discorsi (e delle parole offline pronunciate dai “grandi” di questo mondo, talvolta poco opportune) a beneficio dei social, al di là delle più o meno cruente vendette, al di là dei mal di pancia di chi da una parte e dall’altra non accetta il dato di fatto, il percorso verso la pace non è che cominciato.
Il piano in venti punti proposto dall’amministrazione di Donald Trump per la Striscia di Gaza si articola in diverse fasi e punti chiave. Prevede un immediato cessate il fuoco (completato) e il rilascio di tutti gli ostaggi israeliani (i vivi sono tornati a casa, i cadaveri non sono ancora stati tutti restituiti, forse alcuni sono difficili da trovare) in cambio della liberazione di circa duemila prigionieri palestinesi. Un elemento centrale è la demilitarizzazione di Gaza, che deve diventare una zona libera dal terrorismo e non rappresentare più una minaccia per i suoi vicini.
Il piano prevede, inoltre, il ritiro delle forze israeliane su linee concordate (non ancora precisate, salvo per l’inizio, in cui la Striscia verrà controllata per circa il 60% da Israele) e il dispiegamento di una Forza internazionale di stabilizzazione (Isf), composta da militari e operatori civili degli Stati Uniti e di altri partner internazionali e arabi (in formazione), che gradualmente subentrerà nel controllo della sicurezza della zona. La Striscia sarà sottoposta a un’amministrazione transitoria gestita da un comitato palestinese “tecnocratico” (che vuol dire?) sotto la supervisione di un organismo internazionale (il cosiddetto “Board of Peace”), presieduto da Trump stesso.
Il piano tratta pure della «ricostruzione e riqualificazione economica» di Gaza con «aiuti internazionali immediati». Prevede inoltre l’amnistia per i membri di Hamas che si impegneranno alla convivenza pacifica e consegneranno le armi. Inoltre, coloro che non desiderassero più vivere a Gaza, potrebbero espatriare (ma dove? Nessuno li vuole, neanche i Paesi arabi della regione). Infine, la proposta mira a un «orizzonte politico» (senza tempistiche realiste) per una coesistenza pacifica, sebbene sia stato già fortemente criticato per essere sbilanciato a favore di Israele e per imporre condizioni difficili ai palestinesi. Senza “due popoli due Stati” o in alternativa “due popoli uno Stato) la pace non verrà.
Cosa c’è in questo piano delle roboanti affermazioni sulla erigenda «Riviera di Gaza», sull’espulsione dei palestinesi dalla Striscia, sulla «miniera d’oro» che sarebbe stata quella regione per gli immobiliaristi? Nulla. Anche se pochi lo dicono, questo piano di pace – in cui certamente Trump, desideroso del Nobel, poi attribuito alla venezuelana Machado, e di passare come uno statista di pace, ha fatto ingoiare il rospo a Netanyahu – è stato redatto in fretta e furia per l’impatto delle manifestazioni ProPal in Europa e in altre nazioni, delle proteste continuative dei familiari degli ostaggi in Israele, per il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte di alcuni grandi Paesi, Francia e Gran Bretagna in testa, e per il crescere esponenziale, in Europa soprattutto, degli atti di antisemitismo.
A conferma di questa visione di fondo della questione, oggi Fania Oz-Salzberger, figlia dello scrittore Amos Oz, ha così commentato per il Corriere della Sera quanto si sta vivendo in Israele, annunciando che continuerà a scendere in piazza per difendere «una pace fragile»: «Si è capito che Donald Trump, che istintivamente sa riconoscere i rapporti di forza – scrive –, ha scoperto e capito quale fosse il potere determinante della società civile israeliana e del movimento di protesta. Non solo ci ammira moralmente, ma ha saputo intercettare la portata della nostra energia davanti al disastro».
Il cammino è tuttavia iniziato, e di questo non si può che rallegrarsi. Ma la pace non matura mai in un clima di esposizione della forza e di elogio della potenza militare, come purtroppo si è udito in questi giorni. Come sostengono i più attenti osservatori, ad esempio il card. Pizzaballa, «siamo solo agli inizi, e il cammino è irto di ostacoli». Serve buona volontà, e serve un clima più sereno in Medio Oriente. Ma già si teme che, per tener sotto controllo le frange più estreme del governo israeliano sconfessate pesantemente dal Piano Trump, il premier Netanyahu riprenda in mano i dossier Hezbollah e Iran e prepari altre azioni militari. Il papa sarà in Libano a fine novembre: si spera che la visita sia un deterrente alla ripresa delle ostilità in quelle terre.