Lo sciopero dei portuali di Genova aderenti al collettivo Calp ha indotto la compagnia cinese Cosco ad evitare l’operazione di sbarco di componenti bellici diretti in Medio Oriente.
L’iniziativa è stata sostenuta dal sindacato Usb che ha redatto un vero e proprio manifesto programmatico sul lavoro che ripudia la guerra in cui si afferma che «oggi più che mai si pone per i lavoratori il tema della “non collaborazione” con una economia di guerra e con un sistema di relazioni internazionali fondato sulla palese violazione del diritto internazionale e del diritto umanitario. Si tratta di andare oltre il motto “non in mio nome” e proclamare con azioni concrete “non con le mie mani, non con le mie conoscenze, non con il mio lavoro”».
Nella sostanza i portuali stanno mettendo in pratica quanto chiesto da un numero crescente di esperti diplomatici italiani al governo italiano e cioè di sospendere «ogni rapporto e cooperazione, di qualunque natura, nel settore militare e della difesa con Israele». Oltre il tardivo riconoscimento dello stato di Palestina, è questa richiesta degli ex ambasciatori il nocciolo di una questione morale e politica che si estende anche a tutti i traffici di armi in contrasto con la legge 185/90 tuttora in vigore nonostante la riforma annunciata che la svuoterà di efficacia.
In attesa che qualcosa si smuova a livello di politica nazionale sotto l’incalzare degli eventi sempre più tragici, alcuni lavoratori italiani cercano di dare attuazione alla Costituzione affrontando mille difficoltà e pericoli. E lo fanno in stretto collegamento con altri portuali presenti sui moli europei e del Mediterraneo. È partito dal sindacato greco Enedep, attivo nel porto del Pireo, l’allarme sull’arrivo della nave della Cosco con il suo carico avente destinatario finale la IMI Systems, uno dei grandi contractors dell’industria militare israeliana.

Genova, 8 agosto 2025.
ANSA/LUCA ZENNARO
Il successo dello sciopero annunciato in piena estate non potrà ripetersi altre volte senza un sostegno della società civile responsabile chiamata a sostenere le ragioni di un’astensione dal lavoro dettata da motivi di coscienza. Sono infatti innumerevoli le pressioni per includere il trasferimento di armi tra i servizi di pubblica utilità determinati dalla commissione di garanzia degli scioperi nel settore dei trasporti.
Il flusso di armi è senza sosta. Nei giorni in cui si ricordano gli 80 anni di Hiroshima e Nagasaki, è in arrivo a Genova una nave della compagnia marittima saudita Bahri carica di armi ed esplosivi e che deve imbarcare, come riporta Weapon Watch, anche «cannoni di produzione Leonardo destinati ad Abu Dhabi, giunti dalla Spezia e visti sulle banchine del terminal GMT».
Gli Emirati arabi uniti, destinatati finali del carico di mezzi bellici, rappresentano un problema in base alla legge 185/90. Infatti come fa notare Weapon Watch, gli Eau «hanno partecipato alla guerra contro lo Yemen, con migliaia di vittime civili dal 2014 a oggi, guerra che non si è conclusa e anzi minaccia di riesplodere dopo l’attacco israeliano all’Iran; e stanno sostenendo le Forze di intervento rapido, milizia operante nel Sud Sudan e protagonista della sanguinosa guerra civile in corso». Gli Emirati arabi uniti, inoltre, anche se rappresenta un partener strategico degli Usa, sono un Paese che non garantisce il rispetto dei diritti umani. Altro requisito richiesto dalla legge 185 del 1990 introdotta, occorre ricordare, grazie all’obiezione di coscienza dei lavoratori e lavoratrici alla produzione bellica.
Nel caso specifico del molto di Genova, poi, esiste un serio problema di sicurezza perché i container con materiale bellico altamente esplosivo, secondo Weapon Watch, sono molto vicini a depositi e navi cisterna piene di carburante a «450 metri dalle prime case di Sampierdarena alle spalle del porto, mentre «nel raggio di mille metri si trovano consistenti depositi petroliferi e chimici». La memoria corre alla devastante esplosione che ha colpito il porto di Beirut il 4 agosto 2020 provocando mille seicento morti e distruzioni di abitazioni nel raggio di 800 metri.

Proteste in Libano nell’anniversario dell’esplosione del porto di Beirut EPA/WAEL HAMZEH
La vera novità da parte dei sindacati è la condivisione progressiva di un controllo sul traffico di armi anche da parte delle sigle confederali (Cgil, Cisl, Uil) con riferimento in particolare al materiale bellico prodotto in Italia da Leonardo e destinate alle aree del Medio Oriente che sono teatro di gravi crisi umanitarie come quella in corso nella striscia di Gaza. Una presa di posizione condivisa dalla confederazione internazionale dei sindacati.
Come afferma il manifesto di Usb «se “l’Italia ripudia la guerra” (art. 11 Cost.) e se “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” (art. 1 Cost.), deve ritenersi coerente con il dettato costituzionale la volontà dei lavoratori e delle lavoratrici di non collaborare, di disobbedire, di non effettuare nessuna prestazione lavorativa che abbia un’attinenza diretta o indiretta con l’economia e la cultura della guerra, in ogni settore: industriale, della logistica e del trasporto, della ricerca, dell’istruzione».
Associazioni e movimenti sono chiamati in causa, oltre le dichiarazioni di principio, ad offrire ogni sostegno nel campo giuridico, a cominciare dall’ambito universitario, affinché «questa volontà di disobbedienza deve potersi manifestare anzitutto con il libero esercizio del diritto di sciopero (art. 40 Cost.) e di ogni azione collettiva di lotta (art. 39 Cost) che si opponga alla guerra e alle politiche di riarmo».
Su questa linea si muove la carovana itinerante promossa dalle Acli che a partire dal 2 settembre arriverà in diverse città italiane per affermare che “l’Italia del lavoro costruisce la pace” L’iniziativa è promossa con il patrocinio dell’Ufficio Nazionale per i problemi Sociali e del Lavoro della CEI, della Rete Pace e Disarmo, della Fondazione PerugiAssisi. Come ha ha affermato il presidente nazionale delle Acli, Emiliano Manfredonia, la carovana vuole essere «un cammino collettivo che parte dal mondo del lavoro, per denunciare con forza la logica tossica secondo cui “la guerra fa bene all’economia” e per riaffermare l’idea che pace e lavoro sono parte di un’unica visione di società».