Pace di celluloide

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Hollywood, marzo. La giornata è così splendente che non si può non recarsi ad osservare Los Angeles dalla terrazza del Getty Museum. Tra l’oceano mosso dal vento impetuoso e la neve lontana nell’orizzonte della Sierra Nevada, la città è sconfinata: un incanto. Qui, penso, metterò tra parentesi la guerra. E così avviene, nei giardini che paiono tappezzerie, e negli spazi marmorei illuminati dalla luce del travertino romano. Una mostra: Bill Viola, The passions. Con tecniche sofisticate, il noto artista ha filmato alcuni attori in pose che richiamano quadri celebri, da Dürer a Masolino, e ce li ripropone su schermi digitali che paiono fotografie, anche se non lo sono: i personaggi, infatti, si muovono a velocità lenta, estremamente lenta, svelando poco alla volta i loro sentimenti, le passioni appunto. Nell’imitazione di Etonnement et frayeur (stupore con paura) di Charles Le Brun, Viola mette in scena cinque personaggi che manifestano sentimenti contrastanti. Mi dico che l’autore, come talvolta accade agli artisti, ha saputo rendere profeticamente la realtà: la nazione divisa nel suo intimo. Avanzo con la guerra che mi si appiccica di nuovo alla pelle. Entro in un grande spazio oscuro, percorso da atroci rumori e appena rischiarato da cinque schermi che proiettano misteriose immagini mutevoli. Un bimbo chiede al papà: “È la guerra?”. Lo si direbbe, per la paura, la sospensione, la morte, la tragedia, il mistero evocati dall’installazione. Pare un’altra metafora dell’incubo americano. Si tratta invece delle immagini di uomini che si tuffano e riemergono nell’acqua. Al rallentatore. “L’acqua è una frequente metafora della morte e della resurrezione nell’opera di Viola “, è scritto nel catalogo. Morte e resurrezione sono al centro degli interessi di Hollywood, che siano espressi in celluloide o in betacam. Contastorie Me ne accorgo conversando con un ebreo, Paul Wolff, sceneggiatore ma anche story teller, contastorie. Perenni cappello e stivali da cowboy, rigorosamente di cuoio, sa avvolgerti con la sua parlata suadente, dandoti l’impressione che tutto – dall’hamburger alla morte – sia materia prima per raccontare storie. Gli chiedo cosa scelga di questi tempi. Si fa serio, poi risponde: “Racconto della gente normale quando si accorge che nella casa accanto è scoppiato un incendio. Invece di gridare e scappare, prende i secchi d’acqua e aiuta i vicini a spegnere il fuoco. Poi assieme a loro prende le assi e i chiodi per ricostruire la casa”. Riprende: “Bisogna mantenere la calma, perché oggi non si capisce più chi siano i pompieri e chi i piromani. Penso che noi sceneggiatori abbiamo una grave responsabilità: raccontare storie di pace, perché altrimenti anche la guerra si riduce a fiction”. Ron Austin è anch’egli sceneggiatore, ma da qualche tempo si dedica al mestiere più difficile del cinema, quello dell’insegnamento, della trasmissione di un mestiere inafferrabile, vicino all’ispirazione artistica. Ha messo su un gruppo di giovani sceneggiatori – internazionale, interreligioso e interculturale – che vogliono arrivare al film solo attraverso “un metodo di ascolto e di comunione”. Il che vuol dire “accogliersi, capirsi, stimarsi, aiutarsi, soccorrersi, stimolarsi “, come mi spiega Priya, una giovane indiana di Bangalore. Un altro, Paul, insiste: “Non penso che ormai fare cinema voglia dire solo fare affari. Il cinema ha un avvenire solo se saprà veicolare valori autentici, se saprà cogliere il meglio che c’è nell’uomo. E questo meglio va colto nell’ispirazione pura, quella che secondo me viene da Dio”. Dio: qui se ne parla senza problemi, a differenza della Vecchia Euro- pa. A Hollywood non rischi il ghetto se ti confessi cristiano: ciò succede piuttosto se la tua fede diventa ideologia senza competenza. “I nostri prodotti – mi spiega Trina, altra allieva di Ron Austin – valgono nella misura in cui la nostra capacità professionale e artistica si impone. Fatto questo, le nostre idee saranno prese sul serio”. Cristiani a Hollywood La presenza di singole chiese, o di organizzazioni religiose in senso lato, dalle più grandi alle più nuove, dalle più ortodosse alle meno conformiste, è notevole a Hollywood. Le chiese della Riforma, ad esempio, hanno da tempo un loro avamposto presso la Chiesa episcopaliana. La loro è una presenza tesa ad affermare la centralità del messaggio del Cristo anche nell’industria del cinema. Taluni dicono che tale presenza sia anch’essa un po’ intransigente, ma nella realtà quello offerto è un servizio molto apprezzato, soprattutto per la formazione dei giovani. Barbara Nicolosi, sceneggiatrice cattolica, è l’ideatrice e la principale animatrice di Act One, che ha la sua sede nei locali della chiesa protestante: “Gli studenti che vengono da noi sono tutti cristiani che non vogliono perdere la loro anima; per questo debbono essere ottimi cristiani e ottimi professionisti. Cerchiamo di dare loro quegli strumenti necessari per valutare se una produzione è contraria ai principi cristiani, o se al contrario presenta elementi positivi di reale interesse”. E una convinzione: “Penso che i cristiani abbiano ora una grande chance a Hollywood. C’è molta gente smarrita dopo l’11 settembre; penso che non ci sia statunitense che non abbia cercato un nuovo rapporto con Dio, ma senza i mezzi per farlo. C’è una vera apertura per l’elemento spirituale della vita”. La vivacità dei cristiani a Hollywood si manifesta anche in un festival che, da modesto che era, sta diventando sempre più conosciuto e frequentato. Si tratta del City of Angels Film Festival, che ogni anno in novembre raccoglie attorno a un tema specifico – il prossimo sarà Revolution and revelation, cioè rivoluzione e rivelazione – pellicole che hanno un reale contenuto spirituale. Scott Young, protestante, ne è il fondatore, assieme a cristiani di varie chiese: “Vogliamo con questo festival manifestare una presenza profondamente ecumenica, lo sguardo di persone innamorate di Cristo ma anche del cinema, espressione della grandezza della creazione”. E padre Wilfred Raymond, cattolico, direttore della Family Theater Productions, anch’egli della direzione del festival, aggiunge: “Siamo ecumenici, certamente, ma anche aperti al dialogo con chiunque ha una sua fede. Il cinema può essere un veicolo privilegiato per diffondere questa cultura tollerante e di incontro”. Altro esempio, Jonathan Bock, giovane produttore. Ha avuto un’idea a suo modo geniale: lavora per le maggiori case produttrici hollywoodiane convincendole che i loro film possono avere un maggiore successo se offrono valori che attraggono il pubblico cristiano. “Per questo – spiega – stiamo organizzando in collaborazione con diverse chiese dei centri di visione e di opinione, in modo che le case produttrici sappiano quali sono i film che incontrano il gradimento del pubblico cristiano. Così facendo, poco alla volta penso che le produzioni del grande business potrebbero tendere sempre verso film di valore, che veicolano valori”. Un luogo d’incontro In questo contesto, anche i Focolari con Net One hanno una loro presenza, modesta ma rispettata, assolutamente dialogante. In fondo viene offerto un luogo dove poter respirare aria di unità, dove interrogarsi sulla sfida della fraternità, ormai ineludibile anche a Hollywood. Giovani e meno giovani, appartenenti alle più diverse mansioni del cinema e della televisione, di diverse religioni, si incontrano periodicamente per dialogare sul loro lavoro. Un appuntamento importante ha avuto luogo il 16 marzo scorso, nella prestigiosa sede dell’albo dei registi statunitensi, il Directors Guild of America. Un centinaio di registi, produttori, sceneggiatori e attori hanno partecipato a un paio d’ore di dialogo su un tema assai stimolante: “Responsabilità sociale e media”. È stata proposta la fraternità come principale strumento di reale responsabilità sociale. Jack Shea, fino all’anno scorso presidente dell’istituzione, ha dato il tono: questa via è ormai non solo credibile ma necessaria, anche nel mondo del cinema, per evitare l’implosione del sistema. Tra gli oratori, la produttrice ebrea Maryl Marshall-Daniels ha messo il dito nella piaga: “Ci creiamo gli avversari, i nemici, quasi senza accorgercene. Ora si tratta di accorgercene, e di evitare di trasformare un prossimo in una persona da combattere”. Ron Maxwell, noto regista, ha voluto precisare il suo pensiero, parlando ovviamente della guerra civile, perché i suoi ultimi tre film di successo, visti anche da noi, trattano di questa piaga della storia nordamericana: “Sentiamo avvicinarsi passo dopo passo – ha detto – il rullo dei tamburi che annuncia la guerra. Siamo presi da quel suono angoscioso, e non siamo più capaci di valutare quali sono i costi della guerra, e quali quelli della pace. Non sappiamo più giudicare. È perciò aperta la strada ai colpi di testa. Così è accaduto nella guerra civile, così accade anche oggi “. E ha concluso: “La fraternità è il solo orizzonte che si apre dopo la guerra”. Il commento di una giovane sceneggiatrice sembra sintetizzare la convinzione manifestata dai presenti: “Credo che la fraternità universale, con tutti i suoi corollari, sarà “il” tema dei prossimi decenni qui a Hollywood “.

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