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Oro e armi, perché non si ferma la strage in Sudan?

di Carlo Cefaloni

- Fonte: Città Nuova

Carlo Cefaloni

I troppi interessi all’origine della carneficina in atto nel Paese africano. Urgente la convocazione del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Appello di Rete italiana pace e disarmo. Conferenza stampa convocata alla Camera dai missionari comboniani martedì 4 novembre

Sala consiglio sicurezza ONU foto Wikipedia

In Sudan si sta consumando la peggiore crisi umanitaria del pianeta, ma non se ne parla perché sono coinvolti troppi interessi collegati in particolare con il controllo dell’oro. A parlarne sono solo in pochi: oltre agli articoli dei corrispondenti dall’Africa, nel prossimo numero di Città Nuova ci sarà un approfondimento di Paolo Lambruschi, giornalista tra i più attenti a documentare quanto avviene nel continente a noi prossimo, ma verso il quale prestiamo attenzione solo per la paura della cosiddetta invasione dei migranti.

Persone che spesso scappano per fuggire da conflitti devastanti verso i quali non possiamo dire di avere responsabilità. Basta leggere la stampa missionaria come la rivista Nigrizia dei padri comboniani o seguire con attenzione il  lavoro di inchiesta che porta avanti sulla testata web Africa Express la vicedirettrice Cornelia Isabel Toelgyes.

Uno dei nodi più difficili da affrontare riguarda il ruolo degli Emirati Arabi Uniti (Eau)  nel sostenere una delle parti, le Rapid Support Forces (RSF),che si sta macchiando di crimini efferati.

Come riporta Nigrizia «in Sudan si stanno tragicamente realizzando i timori di massacri su base etnica dopo la conquista della città di El Fasher da parte delle milizie Forze di supporto rapido (RSF), il 26 ottobre scorso, dopo 18 mesi di assedio. Più di 2mila civili disarmati sarebbero stati uccisi in due giorni, prendendo di mira principalmente “donne, bambini e anziani”, secondo la Joint Force, coalizione di milizie alleate dell’esercito, costretto a ritirarsi dalla capitale del Darfur settentrionale».

Appare, tuttavia, assai difficile che venga accolto l’appello lanciato dalla Rete italiana pace e disarmo per una forte azione diplomatica dell’Italia e dell’Unione europea «sui Paesi che alimentano il conflitto, in particolare gli Emirati Arabi Uniti, affinché cessino ogni forma di sostegno armato o logistico alle fazioni in guerra».

Quando il governo italiano decise nel 2019 di sospendere l’invio di missili e bombe dirette verso gli Eau oltre che in Arabia Saudita, i monarchi di Abu Dhabi decisero di impedire alle truppe del nostro Paese di usare la base militare di Al Minhad che è necessaria logisticamente per le operazioni verso il Corno d’Africa e, allora, l’Afghanistan.

Divieto di esportazione poi rimosso con il ripristino dei rapporti economici e militari con  sauditi ed emiratini, detentori di ingenti capitali investiti in Europa.

Ma come sottolinea Rete italiana pace e disarmo, sono le fonti del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti a confermare che «le RSF sono state armate e sostenute dagli Emirati Arabi Uniti, contribuendo ad alimentare un conflitto che si nutre di forniture militari e interferenze regionali».

«In Sudan – afferma Africa Express – si continua a morire anche di fame. La situazione è particolarmente drammatica nel Nord-Darfur, dove il capoluogo el-Fasher è sotto assedio delle RFS da oltre 18 mesi. Migliaia di bambini rischiano di morire di stenti, nella città non è rimasto più nulla da mettere sotto i denti perché i convogli con aiuti umanitari sono bloccati da mesi. Gli ospedali non funzionano più e anche i piccoli affetti da malnutrizione acuta grave sono rimasti senza alcuna terapia salvavita. Secondo quanto riportato da Sudan Doctors Network (organismo professionale che riunisce tutti i medici del Sudan), nel capoluogo del Nord-Darfur ogni giorno muoiono almeno 3 bambini per fame».

Cosa si aspetta ancora prima di indire, come chiesto a Ripd, una riunione d’urgenza del Consiglio di sicurezza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite? Per fare cosa? Imporre una tregua, far passare gli aiuti umanitari e «istituire una commissione d’inchiesta indipendente sui crimini di guerra e contro l’umanità».

AllAfrica, aggregatore di notizie sul continente africano, riporta le dichiarazioni allarmanti di Ravina Shamdasani, portavoce dell’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR): «Stiamo ricevendo molteplici e allarmanti segnalazioni dal Sudan secondo cui le Forze di supporto rapido stanno commettendo atrocità, tra cui esecuzioni sommarie, dopo aver preso il controllo di vaste aree della città assediata di El Fasher, nel Darfur settentrionale, e della città di Bara, nello stato del Kordofan settentrionale».

Armi e sistemi militari sempre più sofisticati provengono, secondo Nigrizia, anche da Paesi europei, come la Bulgaria, dalla Cina e dal Regno Unito, grazie a triangolazioni con gli Emirati, con la complicità di Ciad e Libia.

Il mensile dei comboniani riporta la dichiarazione del direttore per military, security and policing di Amnesty a Londra, Oliver Feeley-Sprague, secondo il quale, «il Regno Unito è da tempo a conoscenza del fatto che armi vengono dirottate attraverso gli Emirati verso zone di conflitto come il Sudan e la Libia».

Potendo agire più liberamente verso Londra dopo la Brexit, l’Unione Europea deve perciò agire, secondo Ripd, per chiedere il blocco  di  «tutte le forniture e il commercio di armi verso le parti in conflitto, in applicazione del Trattato sul Commercio delle Armi (ATT) e delle normative europee ed italiane in materia di export militare. Nessun Paese deve contribuire — direttamente o indirettamente — a questa carneficina».

I padri comboniani hanno indetto a Roma per martedì 4 novembre una conferenza stampa presso la Camera dei deputati e il giorno dopo, 5 novembre, una delegazione dei missionari sarà ascoltata dalla commissione interparlamentare sui diritti umani.

Cosa si può fare per fermare la carneficina in atto? Di sicuro parlarne il più possibile come ci dice Cornelia Isabel Toelgyes per rompere il muro del silenzio.

Conoscere non produce solo un senso di frustrazione e impotenza ma può generare una forte mobilitazione civile come si è visto nel sostegno alla Global Sumud Flotilla per Gaza.

Forse non saranno solo gli interessi di pochi a prevalere se si mette in moto  la coscienza comune capace di ascoltare il grido dell’umanità sofferente.

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