Omaggio a Moustaki. Straniero come noi

Nei giorni scorsi è morto questo autore nato ad Alessandria d'Egitto, ma di origine italiana, che raggiunse il successo a Parigi. Un poeta da non dimenticare
Georges Moustaki

Georges Moustaki. Greco, ebreo, italiano, egiziano, francese. Uno straniero. Come noi. Stranieri (spesso inconsapevoli) su questa terra. I solchi sulla sua faccia, tracce scavate dal sole, impregnati  di sale del mare, due occhi accesi, due luci, due fari sul Mediterraneo. Una barba da saggio, da furfante, la voce calda, che ti smuove le viscere, che le coccola e le sferza, che t’obbliga a innamorarti. Quante volte, strusciando a modo mio sulla chitarra, ho cantato, sulla spiaggia o tra i boschi, nelle notti d’estate, il suo Lo Straniero. Quante volte l’ho ascoltato da lui. È sempre stata seduzione. Cielo. Mescolato alla terra. Perché è una canzone impastata di note, parole e seme d’eterno. Ingredienti d’un intruglio che avvinghia le anime sensibili. Le anime che non avvinghia, pietà per loro.

«Con questa faccia da straniero sono soltanto un uomo vero…». Moustaki, nato ad Alessandria d’Egitto, d’origine italiana, per metà ebreo, arriva a Parigi a diciassette anni. Per guadagnarsi la vita fa il giornalista, il cameriere, il pianista di piano bar. Vuole guadagnarsi la vita con la musica, con la sua chitarra. Ha talento. In quel modo bohemien, nei cabaret della Ville lumière, incontra Prévert, Brel, Brassens, Edith Piaf. Un mondo d’ardimenti e raffinatezze. Ma il botto arriva nel ’69. Compone Le méteque, il meticcio, che da noi diverrà Lo Straniero: «metà pirata metà artista, un vagabondo musicista che ruba quasi quanto dà…». È subito successo, anche in Italia, dove lo ascolto al festival di Sanremo.

«È stato il sole dell’estate e mille donne innamorate a maturare la mia età…». Sono un ragazzino in pantaloncini corti, ma rimango folgorato dalla sua ammaliante, profonda poesia: «E la mia anima si sa in purgatorio finirà salvo un miracolo d’amor…». Non si possono sprecare le parole con Moustaki. È un dovere centellinarle, come un Armagnac d’annata.

Il suo Giuseppe, retro del 45 giri di Lo Straniero, mi pareva canzone ancora più bella, forse perché meno celebre, più intima, raccolta: «Tu buon Giuseppe e tu lo sai la più carina in Galilea non era certo Betsabea, ma era Maria la donna ebrea…». Lo ascoltavo e ascoltavo. Lo cantavo, male, come riuscivo, a modo mio. E continuo a cantarlo e ascoltarlo ora. Parlava di solitudine e sofferenza, la sua canzone. Ma aveva un lieto fine, come ogni opera d’arte deve avere: «sopra una nave abbandonata sono arrivato fino a te, e ora tu sei prigioniera di questa splendida chimera, di questo amore senza età…».

Oggi 23 maggio 2013 è morto, Georges Moustaki. Appena ho ricevuto la notizia, da una telefonata, sono corso a scrivere questo articolo. Non so se ho citato correttamente le sue canzoni. Vengono dalla memoria. Ma non m’importa. Voglio che quest’articolo sia un abbraccio. Esempio povero di quell’abbraccio che avrà ricevuto oggi in Cielo da Qualcuno ben più importante di me. Perché non si può non abbracciare chi riesce a mettere in musica, sommessamente in musica, versi come questi: «…e il nostro amore durerà, per una breve eternità, finché la morte non verrà». Una breve eternità: perché ognuno che conosce l’amore sa che ogni istante d’amore è dannatamente breve, e splendidamente eterno. Che trafora il tempo e lo marchia per sempre.

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