Oltre Cosa Nostra

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La Sicilia, quella vera, siamo noi, cantano in coro giovani e adulti davanti alla questura di Palermo, mentre dalle volanti scendono Salvatore Lo Piccolo, probabile erede del capo di Cosa Nostra, Bernardo Provenzano, e il figlio. Accanto al giubilo popolare, c’è la gioia di Sonia Alfano, figlia del giornalista Beppe, ucciso nel ’93. Nelle aule del tribunale ci sono le lacrime di Gaetano Paci, sostituto procuratore della direzione distrettuale antimafia, e la stupita incredulità di Alfredo Morbillo, fratello di Francesca, moglie di Giovanni Falcone, magistrati che da anni inseguono il boss da un nascondiglio all’altro in una latitanza pluridecennale. Un 5 novembre indimenticabile, a cui, a ruota, sono seguiti altri successi delle forze dell’ordine. A Siracusa è stato sgominato l’intero clan dei Bottaro-Attanasio che vessava l’economia della città e di al- cune zone della provincia, rendendo vana la presenza delle 13 associazioni antiracket, nate a metà degli anni Novanta e che di recente avevano raccolto un numero sempre minore di denunce. Dopo pochi giorni l’arresto del nipote di Nitto Santapaola, uno dei capi storici della cupola nella provincia di Catania. Un’onda irrefrenabile che ha portato all’arresto di 14 estorsori a Gela, patria della fazione mafiosa della Stidda, e di numerosi appartenenti al clan del boss Giuseppe Mulè, che, dal carcere, continuava a gestire il racket a Messina. Ma questi non sono gli unici fiori sbocciati in questo tiepido autunno siciliano. La natura con un sole ancora caldo vuole incoraggiare questa vitalità che, come linfa nuova, percorre l’intera isola. È un momento magico, commenta Rita Borsellino, sorella del magistrato ucciso tragicamente nel luglio del ’92. Ci sono segnali importanti soprattutto tra i giovani che vogliono scrollarsi di dosso la cappa della mafia. Sono stati proprio loro i primi protagonisti del cambiamento, scegliendo di agire dentro una della piaghe più dolorose e criminalmente organizzate del territorio: il racket delle estorsioni. Imprenditori, commercianti, costruttori edili sono tenuti al guinzaglio sotto minacce di morte, attentati, danneggiamenti, e ogni anno cedono a Cosa Nostra un fatturato pari a 10 milioni di euro. Addio pizzo è l’associazione simbolo di questa battaglia. Promossa da sette ragazzi palermitani che in una notte tappezzarono le vie del centro con l’adesivo: Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità, conta ora oltre duecento attività che si sono ribellate al racket. Dal 2004 tante sono le novità – ci spiega Maurizio Guazzaldo, uno dei membri storici -. Abbiamo dato avvio ad una campagna di consumo critico per sostenere questi negozianti, abbiamo chiesto alle istituzioni di inserire nei bandi di gara degli appalti pubblici norme specifiche per impedirne l’accesso ad aziende in odore di mafia. Ma soprattutto abbiamo puntato ad incontrare la gente, le scuole, per creare una cultura nuova. Cultura sostanziata da fatti e da scelte coraggiose di imprenditori che hanno denunciato i loro aguzzini come nel caso di Vincenzo Ponticello, proprietario dell’Antica focacceria San Francesco, locale storico di Palermo, frequentato da Pirandello e da Sciascia. Nell’aula del tribunale ha indicato senza tentennamenti il suo estorsore, nonostante alcuni dei suoi dipendenti abbiano preferito licenziarsi piuttosto che testimoniare. Eppure quel dito puntato contro chi gli aveva tolto la libertà di agire e di vivere ha avuto un’eco anche all’interno delle associazioni di categoria. Confindustria Sicilia, presieduta dal siracusano Ivan Lo Bello, dopo le ripetute minacce ad Andrea Vecchio, imprenditore edile catanese e reiterati attentati ai suoi cantieri, ha scelto di espellere gli associati che non si ribelleranno al pizzo o che in qualsiasi forma collaboreranno con la mafia, accettando ad esempio forniture da amici ed impiegati conniventi. Sembrano lontani i tempi di Libero Grassi, l’imprenditore che, dicendo no al pizzo nel ’91, fu isolato dai colleghi e venne ucciso barbaramente davanti alla sua azienda. Oggi c’è il coraggio pubblico del no. Lo hanno testimoniato professionisti, membri delle istituzioni, cittadini comuni il 10 novembre scorso, stipando ogni angolo del Teatro Biondo a Palermo, per sostenere Libero Futuro, la prima associazione antiracket che nasce in città dopo 16 anni di tentativi rimasti inattuati. Al Biondo c’è la vedova di Libero Grassi, commossa davanti a quella platea irriconoscibile rispetto a due anni addietro, quando per un convegno su mafia ed estorsione le poltrone rimasero vuote. E in prima fila c’è anche Rodolfo Guaiana, ultima vittima di un attentato incendiario, riconducibile a Lo Piccolo. Ha perso completamente il suo deposito di vernici, ma continua a parlare di perdono. Segnali di speranza importanti che il sociologo Antonio La Spina riconduce a quattro fattori: i successi giudiziari, l’esempio degli imprenditori, l’atteggiamento delle organizzazioni di categoria, le associazioni civili che esercitano forme di lotta più creative ed attuali. Un circolo virtuoso – spiega – che si rafforza a vicenda grazie anche all’apporto dei mass media che, raccontando le storie degli imprenditori coraggiosi, hanno innescato stima ed emulazione. Spira un vento nuovo, c’è un clima effervescente e frizzante, come accadde dopo le stragi del ’90. Le condizioni però sono ben diverse. Allora era più una reazione emotiva, incentrata su personalità politiche. Mancava una cultura di speranza, si commenta in strada, sugli autobus, nelle aule universitarie. L’effetto di questo momento potrebbe essere più forte e duraturo perché ha innescato la certezza che il diritto può vincere se supportato dalla comunità civile. Ma, attenzione – mette in guardia il sociologo La Spina -, questo movimento deve avere una svolta che sappia unire le forze sane in un progetto unitario. Un segnale in questo senso è venuto da Banca etica, che a metà novembre proprio a Palermo ha voluto aprire il suo primo sportello in Sicilia. Originale l’inaugurazione: tre giorni di tavole rotonde e di incontri con le istituzioni, con testimoni di scelte etiche sul lavoro, con i quartieri a rischio. Quasi un filo discreto che vuole legare insieme le differenti realtà di una città. Steni di Piazza ha abbandonato un impiego di rilievo in un altro istituto bancario per gettarsi in quest’avventura: Credo al processo di cambia- mento innescatosi nella regione – dichiara il neodirettore – e voglio contribuirvi con un apporto di rete sociale che sappia valorizzare il bene e promuoverlo. Banca etica, fra l’altro, ha avviato procedure di finanziamento agevolato per aziende che aderiscono ad Addio pizzo e offre microcrediti a chi vuole sottrarsi al ricatto degli usurai. Nel contempo, sta già sostenendo cooperative sorte in terreni confiscati alla mafia e associazioni che operano in quartieri a rischio. Proprio in queste città nella città, purtroppo, l’aria nuova sembra scivolare sulle persone, reputa Davide Faraone, presidente della commissione trasparenza del capoluogo siciliano. E continua: Lo Zen è territorio di Lo Piccolo e, anche se lui è in carcere, la gente continua ad incontrare i suoi gregari, li teme. Per cui la mia speranza è che questo movimento non resti confinato alle élite. La politica poi dovrebbe fare scelte conseguenti, proponendo progetti per queste zone franche come prevede il Pon sicurezza (il Programma operativo nazionale cofinanziato dal Fondo sociale europeo, ndr), ed invece rischiamo di perdere due milioni di euro destinati a noi. Di recente il Senato ha votato a larga maggioranza due emendamenti bipartisan che prevedono riduzioni di Irpef ed Irap alle aziende che denunciano le estorsioni. Bisogna dare un messaggio chiaro a chi fa impresa – ha ribadito Beppe Lumia, vicepresidente della commissione parlamentare antimafia -. Pagare non conviene. Non bisogna aver timore di ritirare licenze ed escludere dagli appalti se questo può servire a fermare l’emorragia monetaria che ogni anno porta nelle tasche di Cosa nostra proventi illeciti pari alla ricchezza prodotta in un anno da regioni come la Lombardia. E la Chiesa siciliana? L’arcivescovo di Palermo Paolo Romeo, al termine dell’incontro di novembre della Conferenza episcopale siciliana, ha condannato il racket e il pizzo annoverandolo tra le forme peggiori di male che l’uomo può commettere contro i suoi simili, definendo peccato tutto ciò che non è frutto del sudore della propria fronte. E, rivolto ai boss, che ostentano la Bibbia o immaginette sacre, Romeo risponde intransigente: Il mafioso segue una religione fai da te: prende dalla Bibbia solo quello che gli serve. Ciò che non gli conviene lo mette da parte. Ma la Bibbia non dice di ammazzare, di imporre la violenza o di estorcere il denaro. Ad Alcamo, in provincia di Trapani, poi, mons. Vincenzo Regina, ha stilato persino un Decalogo contro il pizzo in risposta a quel Decalogo del perfetto mafioso trovato nel covo di Lo Piccolo. E se i comandamenti di un affiliato di Cosa Nostra si rivolgono a bravi ragazzi leali e rispettosi dell’amicizia e della verità, la pubblicazione del sacerdote incoraggia tutti a non cedere alla paura, a ricercare la solidarietà, a denunciare. Anche questo appare un luminoso segnale di speranza oltre gli stereotipi.

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