Occhio alle famiglie

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Che lo vogliamo ammettere o no, due sono gli aspetti prevalenti che ci interessano quando si parla di immigrati: l’ordine pubblico e l’aspetto economico. Ce ne accorgiamo guardando il mondo dell’informazione, ascoltando i discorsi fra la gente, e ce lo conferma anche il mondo della ricerca. Gli studi sull’immigrazione in Italia prendono di mira infatti l’immigrato come lavoratore, il fatto che sia inserito nel contesto produttivo oppure no, l’impatto che ha sull’economia locale, l’entità delle rimesse che riesce a mandare nel Paese di origine… Un’impostazione dunque di tipo prevalentemente economico che spesso rimane la sola, escludendo così tanti altri aspetti altrettanto importanti fra i quali il processo di socializzazione di queste persone e delle rispettive famiglie, che è fondamentale non solo per loro, ma per l’intera comunità dove esse sono inserite o cercano di inserirsi. La 93ª Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, celebrata lo scorso 14 gennaio, ci ha ricordato proprio quest’aspetto: la necessità di prendere in considerazione non il singolo individuo migrante, ma anche la sua famiglia, come elemento non secondario dell’integrazione. Nel suo vibrante messaggio per la Giornata, Benedetto XVI non ha mancato di rifarsi ad una famiglia illustre, quella di Nazareth, che nell’esilio in Egitto sperimentò sulla propria pelle le difficoltà di ogni famiglia migrante, i disagi, le umiliazioni, le strettezze e la fragilità di milioni e milioni di migranti, profughi e rifugiati. E non è solo ricordo, ci sono tanti esempi concreti nel messaggio. Dalla lontananza che, causando spesso la rottura degli originari legami, può portare alla nascita di nuovi, precari, affetti, alla condizione di tante donne che finiscono per essere vittime del traffico di esseri umani e della prostituzione. E poi la situazione di tanti rifugiati accolti nei campi loro destinati che, oltre alle difficoltà logistiche ed alle esperienze traumatiche vissute, devono far fronte al rischio di coinvolgimento di donne e bambini nello sfruttamento sessuale, come meccanismo di sopravvivenza. Prendere in considerazione la famiglia migrante e non l’individuo è un cambio di prospettiva abbastanza radicale. Anche perché, spesso, lo stesso progetto migratorio può andare incontro ad un tipo o un altro di evoluzione a seconda che la persona interessata arrivi e rimanga da sola oppure, pur arrivando da sola, aspiri comunque ad un ricongiungimento familiare o a metter su famiglia. Perché per il singolo spesso il progetto è quasi esclusivamente economico: cercare di fare più soldi possibile da mandare nel proprio Paese d’origine magari per costruirsi una casa, garantire un futuro migliore a figli e parenti vari. Per una persona sposata o che decide di metter su casa nel Paese d’immigrazione, può trattarsi invece di un progetto più duraturo e per il quale quindi l’aspetto economico, se può essere quello prevalente, non è l’unico. Com’è dunque la situazione in Italia da questo punto di vista? Sono oltre 200 mila nel nostro Paese i nuclei familiari formati da stranieri provenienti da Paesi a forte pressione migratoria, secondo dati Istat pubblicati nel 2005. Quasi il 60 per cento di queste famiglie sono intenzionate a rimanere da noi in via definitiva. Soprattutto chi ha figli ha pensato per loro un futuro italiano. È questo un dato emerso dalla ricerca Famiglie migranti, il primo rapporto nazionale sui processi d’integrazione sociale delle famiglia immigrate in Italia, realizzato dall’Iref, l’Istituto di ricerca delle Acli, per conto del Patronato Acli. Si tratta di un’indagine compiuta nel 2006 su un campione rappresentativo di mille famiglie immigrate di oltre 31 nazionalità diverse, intervistate sulle origini, le condizioni e le prospettive della loro permanenza nel nostro Paese. Famiglie dunque che sembrano porre fiducia nel nostro Paese – come ha affermato Olivero, presidente delle Acli -. E noi dobbiamo essere in grado di assecondare il loro investimento, perché saranno proprio loro, e già lo fanno, ad aiutarci a costruire il futuro dell’Italia. Sono infatti le famiglie e non i singoli il vero motore tanto dei processi migratori quanto di quelli d’integrazione. Con i problemi che tutto questo può comportare, ovvio. Tra i quali la difficoltà numero uno, quella della casa, che, se rappresenta un ostacolo per tante famiglie italiane, lo è ancor più per quelle immigrate. I comuni stanno cercando soluzioni in questo senso. Di sicuro proficua è l’esperienza del comune di Modena, che ha promosso nei mesi scorsi, d’intesa con tutte le parti interessate, un’Agenzia per la casa per fare da tramite e da garante tra l’offerta e la domanda di alloggi, offrendo consistenti vantaggi per i proprietari che affittano. Requisiti indispensabili per poter accedere a queste opportunità, la residenza o l’attività lavorativa nel comune di Modena e il regolare permesso di soggiorno per i cittadini stranieri. E se quelli della casa e del lavoro sono, forse, i problemi più grossi, non possiamo dimenticarne altri che vanno ad incidere sul benessere dei migranti. Dalla lontananza delle amicizie e dagli affetti, all’atteggiamento di diffidenza di molti italiani, agli scogli di carattere linguistico, le complicazioni della burocrazia, la difficoltà di accedere ad un prestito bancario… Per questo è necessario fare riferimento ad una rete di sostegno, il più delle volte formata da connazionali. Almeno inizialmente. Un dato positivo rilevato dalla ricerca dell’Iref è, ad esempio, quello che vede una crescita della frequentazione con le famiglie italiane man mano che passano gli anni di permanenza nel nostro Paese. Dove gran parte di queste famiglie riesce a migliorare le proprie condizioni di vita rispetto al momento dell’arrivo e dunque decide di restare. C’è un altro soggetto che in genere non viene preso molto in considerazione quando si parla di migranti e che invece richiama l’attenzione del papa nel messaggio per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato: lo studente. Una categoria da considerare in modo speciale – sostiene Benedetto XVI -, quella degli studenti di altri Paesi, che si ritrovano lontani da casa, senza un’adeguata conoscenza della lingua, talora privi di amicizie e in possesso non raramente di borse di studio insufficienti. Un popolo di circa due milioni di persone, quello degli studenti esteri, presente soprattutto negli Stati Uniti, in Inghilterra, Germania e Francia. E che non è assente neppure in Italia. Giovani che possono sperimentare la solitudine o essere attratti da un livello di vita più elevato, sentirsi disorientati… Da qui l’invito a creare intorno a loro la famiglia, persone cioè che li accolgano, li ospitino se possibile, non li facciano sentire soli o stranieri, in un’età in cui si fanno scelte importanti per la vita. Allargare dunque le mura domestiche fuori dagli stretti confini della propria abitazione! LA CONDIZIONE DEI RIFUGIATI Difficile, molto difficile, a volte impossibile, la vita per gli sfollati, sia che escano dai loro Paesi, sia che vi spostino all’interno. È sostanzialmente questo che afferma l’arcivescovo Agostino Marchetto, segretario del Pontificio consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti. Che denuncia vari aspetti del dramma spesso senza fine di milioni di esseri umani alla ricerca disperata di condizioni di vita accettabili. Rileva il segretario che l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Acnur) si occupa di circa 20 milioni di persone, tra cui 9 milioni sono proprio rifugiati. A questi vanno aggiunti quattro milioni di palestinesi, i cristiani e altre minoranze religiose in Iraq, 24 milioni di persone sfollate all’interno del proprio Paese, e sei milioni che nel Sud del mondo vivono in appositi campi da più di cinque anni. Persone queste che non possono lavorare, né spostarsi e dunque dipendono dalle razioni di cibo (spesso insufficienti) che vengono loro donate con conseguenti problemi di malnutrizione e ricorso a meccanismi di sopravvivenza il più delle volte contro ogni criterio di dignità umana. E poiché nei Paesi cosiddetti industrializzati i rifugiati sono sempre più visti in modo negativo, sono state varate misure tendenti a limitare le richieste di asilo imponendo, per esempio, procedure per ottenerlo che possono durare anni, nel corso dei quali la persona non ha diritto a lavorare, ed è molte volte costretta a vivere rinchiusa in centri di accoglienza o permanenza sovraffollati , afferma mons. Marchetto. Il quale non manca, poi, di evidenziare le conseguenze psicologiche negative del vivere insieme, e non per scelta, con persone sconosciute, di cultura diversa, in attesa di un futuro incerto. Con riflessi pesanti sul singolo e sulla famiglia e, di conseguenza, sulla società.

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