Nuova legislazione europea sui farmaci: se ne discute

La Commissione Ue ha proposto una riforma, che ora è al vaglio del Parlamento e del Consiglio. L'intento è quello di semplificare le procedure autorizzative e limitare la durata dei brevetti sui farmaci, per favorirne una maggiore disponibilità. Ci sono tuttavia alcuni punti critici su cui si dibatte.
farmaci

Se ne è parlato qualche tempo fa, quando la cosa era uscita sui giornali, e poi è caduta sotto silenzio: ma trattandosi di un iter ancora in corso, e di una questione che può avere risvolti significativi in quanto a tutela della salute di tutti noi, è bene non farla cadere nel dimenticatoio. Parliamo della proposta di riforma del settore farmaceutico presentata dalla Commissione Ue a fine dello scorso aprile, e che è ora al vaglio del Parlamento e del Consiglio. Data la vastità dell’argomento la proposta è ovviamente molto articolata, ma le novità più salienti riguardano le procedure di approvazione dei nuovi farmaci, la protezione della proprietà intellettuale, e gli incentivi alle aziende che sviluppano farmaci in alcuni specifici settori. L’intento è quello di rendere tale legislazione “più agile, flessibile e adattata alle esigenze dei cittadini e delle imprese in tutta l’Ue”, agevolando l’accesso ai farmaci.

Andando per sommi capi, la prima novità riguarda infatti la semplificazione delle procedure di autorizzazione da parte dell’Ema (l’Agenzia europea del farmaco, ndr) che dovrebbero così richiedere non più di 180 giorni contro l’attuale media di 400; la riduzione del periodo di protezione brevettuale a 8 anni contro gli attuali 10, che però salgono a 12 in caso di medicinali innovativi, che rispondono a esigenze mediche insoddisfatte, se vengono lanciati in tutti gli Stati membri, se vengono condotte sperimentazioni cliniche comparative o se viene sviluppata una nuova indicazione terapeutica; e più in generale incentivi per le aziende che affrontano i temi come la riduzione dell’impatto ambientale dei farmaci in tutto il loro ciclo di vita, o lo sviluppo di nuovi antibiotici – dato che l’antibioticoresistenza di un numero sempre maggiore di batteri è considerata una delle principali emergenze sanitarie. Secondo le stime della Commissione, solo la semplificazione delle procedure autorizzative consentirà fino a 300 milioni di euro annui di risparmio per le imprese e le autorità nazionali; e consentirà l’accesso a nuovi farmaci a circa 70 milioni di cittadini in più, dato che il ginepraio burocratico fa sì che la commercializzazione avvenga spesso solo in alcuni Stati.

Come spesso accade quando viene proposta una riforma, tuttavia, vengono da un lato riconosciute le buone intenzioni, e dall’altro rilevate le criticità che questa pone. L’ex direttore dell’Ema Guido Rasi, in un’intervista a Quotidiano Sanità, ha infatti parlato di “ottimi obiettivi”, ma di una metodologia che “rende difficile raggiungerli”, partita da “presupposti che ormai non esistono più”: e cita come la pendemia abbia profondamente cambiato il mercato dei farmaci, rendendo obsoleto l’attuale sistema di licenze e con esso la riforma che su questo interviene. Dubbi sono stati espressi, e non solo da Rasi, anche sull’effettiva fattibilità di arrivare ad autorizzazione in 180 giorni senza rivedere anche la struttura della stessa Ema; e sui potenziali effetti distorsivi degli incentivi dati alle aziende che sviluppano farmaci e nello specifico antibiotici innovativi, dato che questi includono anche la possibilità di una sorta di “voucher” di prolungamento della licenza di esclusiva anche su altri medicinali di propria produzione. Più di tutto e da più parti è stato criticato l’abbassamento del periodo di protezione della proprietà intellettuale, che renderebbe l’Europa meno attrattiva per gli investimenti delle aziende farmaceutiche – specie considerando che gli investimenti su alcuni farmaci sono così ingenti che richiedono tempi di rientro anche più lunghi; mentre l’obiettivo di estendere a 12 anni la protezione immettendo un farmaco sul mercato in tutti gli Stati membri sarebbe poco più che una chimera, dato che rimane la necessità di negoziare con ogni singolo Paese l’autorizzazione a livello nazionale e le procedure di rimborso da parte del sistema sanitario pubblico. Insomma, ottime intenzioni, ma che renderebbero di fatto l’Europa consumatrice di farmaci sviluppati altrove, in Paesi con legislazioni ancor più snelle e favorevoli alla protezione della proprietà intellettuale – come Cina e Stati Uniti.

Che conclusioni trarne dunque? «Non esiste a mio avviso una ricetta unica fatta solo di questioni economiche – afferma Francesca Salvetti, professionista in campo bio-medico – : esiste un lavorare insieme per raggiungere un obiettivo comune, la salute di ogni uomo. Nel lungo elenco degli argomenti di cui tratta questa riforma va tenuto presente questo, e non ciò che le singole corporazioni o lobbies (aziende, pazienti, o Stati) chiedono o contestano. Questa riforma sulla legislazione farmaceutica è un segno del fatto che cerchiamo di gestire la sanità sempre più a livello europeo e non solo nei singoli Stati: e questo, per dirla in una maniera che sarebbe stata cara alla fondatrice dei Focolari, Chiara Lubich, è un segno dei tempi e di unità. Allo stesso tempo queste riforme vanno però fatte e portate avanti prima di tutto con una valutazione e governance clinico-scientifica in maniera ampia e trasparente. Auspico quindi che si formeranno tavoli di discussione per questa riforma, dove speriamo tutti siano rappresentati adeguatamente ed ascoltati; nell’ottica di raggiungere un’unica sostenibilità, che comprende allo stesso tempo quella economica, ambientale e sociale».

Più disincantata , se così vogliamo definirla, la visione di Nicola Matteucci, docente di economia applicata all’Università Politecnica delle Marche, che si occupa appunto di questioni regolatorie: «Di riforme se ne propongono di continuo – osserva – e, almeno per quanto se ne sa ad ora, non vi sarebbero novità dirompenti nei principali strumenti regolatori, a meno di accelerazioni dell’ultima ora. Non si mettono cioè in discussione i punti più radicali e strutturali, su cui la letteratura antitrust e regolatoria più severa (in cui anche io mi sento rappresentato) pensa che si giochino le questioni più importanti e forti (come la riforma della normativa sulla brevettazione farmaceutica, misure di deconcentrazione del mercato, nuovo ruolo del pubblico sulla produzione dei farmaci indisponibili e la licenza obbligatoria, la nuova governance di Ema e nuovi strumenti e assetti di farmacovigilanza). In altri termini, aggiustare al margine la durata della brevettazione è una piccola “riforma”, mentre disciplinarla su nuove basi sarebbe una grande riforma della regolazione. Di quelle che tipicamente in Occidente non si riesce mai a fare per il lobbying dell’oligopolio di settore, che è effettivamente molto forte nei confronti delle istituzioni europee».

Sulla questione della semplificazione dei processi autorizzativi, inoltre, «bisogna capire quale fase e attività del processo si vuole semplificare. Semplificare la burocratizzazione dei processi autorizzativi senza peggiorare il rigore scientifico del sistema di autorizzazione e di farmacovigilanza è cosa buona e giusta, ma in caso contrario il rimedio può essere peggiore del male: abbiamo tutti sentito parlare di che cosa è accaduto con i vaccini a mRNA autorizzati così velocemente in tempi di pandemia, quando appunto questa velocità ha sollevato in tanti molti dubbi, che personalmente condivido, sulla reale trasparenza di questo processo e della successiva farmacovigilanza». Così come «le barriere all’ingresso nel mercato farmaceutico di un certo Paese da un lato pongono effettivamente difficoltà alla disponibilità di alcuni farmaci, dall’altro tutelano aziende farmaceutiche nazionali più piccole, che non potrebbero mai competere ad armi pari con i colossi stranieri, e la cui produzione è importante per i pazienti di quel Paese stesso. Anche su questo, dunque, bisogna fare molta attenzione perché, come dicono gli inglesi, the devil lies in the details, il diavolo sta nei dettagli».

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