Non fischiateli

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Mentre stringevamo i lacci degli scarpini, l’allenatore distribuiva, assieme alle gomme da masticare, le ultime raccomandazioni. Era in quei minuti, carichi di tensione, che lui, l’arbitro, bussava alla porta. Dallo sguardo cercavamo di coglierne lo stato d’animo: c’era quello che allargava gli occhi su tutti, ed era colui che cercava un’intesa prima della battaglia, e chi, sfidandoti a contestarlo, ad occhi bassi iniziava l’appello. “Crepaz?”. “Paolo, 9”. Mostravi, girandoti, il numero sulla schiena ed i tacchetti. Al termine la giacchetta nera lanciava pochi, secchi avvertimenti: “Chi bestemmia va a farsi la doccia. Se alzo la mano la punizione è di seconda. Anch’io posso sbagliare, ma niente contestazioni: parlo solo col capitano”. Quelle formule ripetitive, evocatrici di rispetto, quasi un esorcismo prima di celebrare il rito della partita, sono pronunciate ancora oggi ogni week-end dalle trentamila giacchette nere, che, ogni domenica, dai campetti dell’oratorio a San Siro, giocano la loro partita di pallone, schierati in un ruolo antipatico, ma indispensabile, tuttavia non sufficiente a proteggerli da critiche, insulti e minacce. Eppure non demordono, anzi le fila si alimentano sempre di nuove leve. Alcuni sono persino figli d’arte, come Pieri e Paparesta: per loro sentirsi dire “Sei come tuo padre” non suona come un complimento. La schiera più numerosa è però fatta di fischietti anonimi. Come Michele, 25 anni, una laurea in tasca: ogni domenica macina le sue diagonali sui campi della Toscana, nelle categorie dilettantistiche. “Ho scelto di fare l’arbitro – spiega – perché credo nel ruolo educativo di questa figura, soprattutto nel riguardo dei più piccoli: non solo fischiare, ma anche spendere due parole per insegnare le regole ed il rispetto dell’avversario. E dell’arbitro. Un giorno un bimbetto alto un metro mi ha dato del “venduto”: ho fermato il gioco per spiegargli come stanno le cose. Al corso ci insegnano il regolamento, ad essere preparati atleticamente, ad avere un comportamento corretto dentro e fuori dal campo. Ed a cercare il dialogo, conservando autorevolezza, ma senza peccare di protagonismo: in certi casi dobbiamo riconoscere che siamo noi arbitri, con il nostro comportamento, a scatenare l’ostilità di giocatori e tifosi…”. Quando gli chiedo che effetto gli fanno le contestazioni sorride: “Proprio non capisco perché la gente mi faccia dei sorrisini o mi offenda senza ritegno, solo perché faccio l’arbitro. Per me è uno sport come un altro: anzi, se non ci fossi io non si giocherebbe nemmeno la partita. L’altra domenica, in terza categoria, una squadra contestava ogni decisione, persino quelle a favore: ad un certo punto ho provocatoriamente proposto ad un giocatore lo scambio della maglietta, dicendogli: “Ora arbitra tu!” Hanno capito e mi hanno chiesto scusa”. Michele non nasconde una certa amarezza: “Quello che non accetto è che mi si dia del “venduto”: in quei momenti mi chiedo chi me lo fa fare di arbitrare”. Eppure “è meglio comprare le partite che acquistare giocatori: si risparmia ” affermò un giorno un presidente, non contribuendo molto a fugare i sospetti e svelenire le polemiche. L’ambiente del calcio meriterebbe iniezioni di ironia ed autocritica in dosi massive, specie da parte dei media: purtroppo molti giornalisti vestono regolarmente, nei confronti delle giacchette nere, gli abiti degli ultrà, gonfiando animi e muscoli quando scrivono e quando parlano in tv. Per loro la colpa è comunque sempre degli arbitri. E così ad essi spetta non solo il gravoso compito di garantire lo svolgimento regolare della partita, ma pure quello di difendersi da soli. Vincenzo, calabrese, è in pensione per il terreno di gioco, ma ogni domenica siede in tribuna a controllare i colleghi. La categoria, infatti, gode di una severa rete di “osservatori”, che compilano giudizi ed assegnano voti, determinando la carriera di ogni fischietto. “Il voto più alto – precisa – lo riceve chi sa dialogare, chi sa farsi accettare dai giocatori, colui che corre per stare il più vicino possibile all’azione: sei, sette chilometri da macinare in 90 minuti, con l’obbligo di stare nel posto giusto al momento giusto e conservare lucidità non sono una sciocchezza. Così si garantisce il rispetto delle regole. Il tutto apparendo il meno possibile”. Indro Montanelli scrisse un giorno del mitico Concetto Lo Bello: “Entra in campo col passo del padrone che ispeziona il proprio podere”. Cosa pensa delle diatribe televisive sugli arbitri? “Tutti pensano che il calcio sia quello che si vede alla moviola: in realtà l’arbitro deve saper decidere, e molte volte, in tempi brevissimi. Oltretutto il regolamento non sempre è molto chiaro: il fallo sull’ultimo uomo o quello da tergo non sono di facile e univoca interpretazione… “. Fu proprio Lo Bello, nel ’72, il primo a schierarsi, nel corso di una Domenica sportiva, a favore della moviola. In quella occasione, serenamente ammise: “Ho sbagliato”. La confessione fece clamore, ma il suo carisma e la sua personalità acquistarono un risalto che dura nel tempo.

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