Marco Tarquinio è un parlamentare europeo che siede tra i banchi del gruppo dei Socialisti&Democratici dopo essere stato eletto come indipendente nella lista del Partito Democratico.
Da direttore di Avvenire ha seguito un’impostazione molto chiara sulla traccia di papa Francesco, esponendosi a critiche di ogni genere, soprattutto sulla questione della guerra. La materia, cioè, divisiva per eccellenza e sempre più centrale dopo il precipitare della crisi in Ucraina con l’invasione russa del 24 febbraio 2022.
Tra i dem convivono orientamenti diversi. Tarquinio, rimasto indipendente e senza tessera di partito, è in posizione di decisa minoranza come lo è, ad esempio, Cecilia Strada, altra parlamentare che proviene dal mondo delle ong, Emergency e ResQ.
Lontano dall’atlantismo spinto dei cosiddetti riformisti del Pd, l’ex direttore di Avvenire è stimato da movimenti di base e sindacati come la Fiom Cgil, che lo ha perciò invitato il 30 ottobre nella storica sala dedicata a Di Vittorio per intervenire all’incontro No all’economia di guerra.
La Cgil è di fatto l’unico sindacato europeo di grandi dimensioni che ha espresso la propria contrarietà al piano di riarmo deciso dalla Commissione europea presieduta da Ursula von der Leyen. Anche se poi deve gestire, incalzato ad esempio da Usb, la complessità di una presenza all’interno delle fabbriche produttrici di armi. E proprio a Roma e provincia si concentra il maggior numero di aziende e centri di ricerca della filiera bellica.
Già altre volte nella storia moderna il sindacato ha rotto la solidarietà internazionale per seguire logiche nazionali così come le Chiese hanno invitato ad obbedire alle autorità dei Paesi contrapposti, legittimando l’ordine di combattere armi in pugno.
Si può ancora resistere, in questa fase storica, all’egemonia della cultura della guerra? Ne abbiamo parlato con Marco Tarquinio.
Il filtro dei nostri media principali non rende evidente la torsione bellicista dell’Unione Europea che lei ha più volte denunciato. Tira proprio questa aria di imminenza della guerra a Bruxelles?
Purtroppo, sì, e in modo ancora più netto di quanto appaia. La linea che definisco “bellicissima” attraversa trasversalmente quasi tutte le principali famiglie politiche europee, dai Popolari ai Socialdemocratici. Su 720 europarlamentari, siamo poco più di 120 a opporci con costanza a questa tendenza. Il clima dominante è tale che anche un’iniziativa come la creazione di un gruppo di lavoro per la pace, la diplomazia e il dialogo ha incontrato ostacoli insormontabili. Non siamo riusciti a renderlo un intergruppo ufficiale perché non abbiamo ricevuto la “benedizione”, formalmente indispensabile dei grandi gruppi politici, a partire da Socialisti & Democratici e Verdi.
Come si spiega questo orientamento prevalente?
È un clima alimentato da una fazione politica che io chiamo dei “frontalieri”: coloro, cioè, che interpretano i confini esclusivamente come una “linea del fronte”. Questo vale sia nei confronti del nemico riconosciuto e designato a Oriente, sia nei confronti dei migranti e dei richiedenti asilo, accomunati nella retorica dell’invasione. Sono gli stessi che, nei panni dei “frugali”, spingono per patti di stabilità rigidi, pronti però a sospenderli per consentire l’aumento delle spese militari, mai per investimenti sociali o ecologici. Questa mentalità si fonda su un capovolgimento ideologico che ridefinisce il concetto stesso di pace e di guerra, promosso appunto dai “frontalieri”, non solo geografici ma anche “dell’anima”.
Lei parla di un capovolgimento ideologico. Abbiamo sentito leader europei usare un linguaggio che parla di “piani per preparare la pace” mentre stanziano miliardi per le armi. Quali sono i passaggi semantici che hanno reso accettabile l’idea che la pace si costruisca con la guerra?
Abbiamo assistito a una progressiva e inquietante evoluzione semantica. Il piano di riarmo europeo è stato presentato inizialmente con il nome esplicito di “RiArm Europe”. Poi è stato ribattezzato “Readiness 2030” (Pronti per il 2030), un nome che sembrava quasi fare il verso all’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile, sostituendola con una scadenza per lo scontro. Una scadenza anticipata al 2027 da Andrius Kubilius, commissario europeo per la Difesa e lo Spazio, durante un’audizione congiunta dello scorso maggio alle Commissioni Politiche UE di Camera e Senato e alle Commissioni Esteri-Difesa di Palazzo Madama. Oggi, con un linguaggio quasi orwelliano, lo stesso piano viene definito il “piano per preparare la pace”.
È una visione diffusa anche nel centrosinistra …
La dottrina dominante, ormai esplicitata dalle classi dirigenti globali, è quella secondo cui “la pace avviene attraverso la guerra”. Lo fa Vladimir Putin, lo proclamano e lo premeditano Donald Trump e i suoi collaboratori. E lo sta teorizzando anche Kaja Kallas, ex premier estone e oggi alta rappresentante per la politica estera e di sicurezza Ue, da ultimo anche durante un’audizione parlamentare a Bruxelles. Siamo di fronte al totale rovesciamento dei principi fondanti su cui si basa l’Unione. L’articolo 3 dei trattati europei e l’articolo 11 della Costituzione Italiana stabiliscono che la pace si costruisce attraverso il ripudio della guerra, la coesione, il benessere diffuso e la giustizia per i popoli. Oggi, al contrario, si è scelta la strada della militarizzazione come presunto strumento di pace. Questo slittamento non è solo retorico, ma si sta traducendo in precisi e preoccupanti meccanismi finanziari.
Passando agli aspetti più tecnici, con quali strumenti finanziari e meccanismi l’Europa sta concretamente finanziando questa corsa agli armamenti? E quali sono i rischi in termini di trasparenza e controllo democratico?
La nuova parola magica a Bruxelles è “competitività”. Ha soppiantato, e sta svuotando, concetti come “sostenibilità” e “solidarietà” e le pratiche conseguenti. Questa nuova priorità guida la riallocazione delle risorse. Un caso emblematico è quello dello strumento InvestEU, il successore del “Piano Juncker”, nato per mobilitare investimenti a sostegno della transizione verde e digitale. Con una recente votazione in Parlamento, si è stabilito che anche questo fondo, che coinvolge la Banca Europea degli Investimenti (BEI), può essere orientato verso investimenti “prevalentemente militari”.
Il rischio principale è la totale mancanza di trasparenza. Attraverso il concetto di “doppio uso” (dual use), i finanziamenti destinati all’industria bellica vengono nascosti all’interno di un “calderone” comune, rendendo quasi impossibile per l’opinione pubblica, i sindacati e le forze sociali controllare la destinazione finale delle risorse. Queste vengono dirottate anche a prescindere da linee di bilancio chiare e dedicate.
Secondo il piano esposto, 650 miliardi di euro saranno indirizzabili da parte dei singoli Paesi Ue grazie alla deroga dei vincoli sul debito pubblico. Quali criteri verranno seguiti per finanziare i 150 miliardi di euro comunitari dei fondi europei per il riarmo?
Le opzioni sul tavolo sono due, entrambe problematiche: utilizzare il debito comune, ovvero lo strumento di massima solidarietà europea, per finanziare quella che io definisco la “dimensione della distruzione”. Oppure “grattare” le risorse dai due più grandi capitoli di spesa dell’UE: i fondi per l’agricoltura e quelli per la transizione verde.
Spostando lo sguardo al quadro internazionale, a chi giova strategicamente questa situazione?
La verità è che né gli Stati Uniti, né la Russia, né la Cina hanno un reale interesse strategico a un’Europa dotata di una vera autonomia. L’Europa si trova stretta, come ho detto in altre occasioni, “tra l’incudine di Trump e il martello di Putin”.
Gli Stati Uniti, in particolare, pretendono dall’Europa due linee di investimento colossali: 600 miliardi di dollari per il proprio complesso militare-industriale e altri 750 miliardi per sostenere l’industria energetica fossile statunitense. Questo, di fatto, rallenta la nostra transizione ecologica verso cui procede velocemente la Cina grazie alla sua politica dirigista. Tale rallentamento verso l’autonomia energetica finisce per legarci a doppio filo, e in ruolo ancillare, agli interessi strategici statunitensi.
Quale ruolo ha avuto la guerra in Ucraina nell’accelerare questi processi?
La guerra in Ucraina è stata l’evento scatenante che ha permesso questa accelerazione. Il suo obiettivo strategico principale, ormai evidente, era interrompere l’asse economico tra Russia e Germania, basato sulla fornitura di gas a basso costo che alimentava l’industria tedesca e, di conseguenza, quella italiana ad essa collegata. Un colpo devastante al cuore stesso della manifattura europea. L’attacco al gasdotto Nord Stream, le cui responsabilità sono ormai note (sabotaggio per mano ucraina con assistenza angloamericana, ndr), è la prova più lampante di questa strategia. Il risultato è un’Europa più debole, divisa e dipendente, una condizione che fa comodo a tutti i grandi player globali tranne che agli europei stessi.
Qual è l’impatto di queste scelte sulla vita dei cittadini e il clima sociale in Europa?
Vedo un legame diretto e inscindibile tra torsione bellica e torsione a destra: sono due fenomeni che si intrecciano e sono un tutt’uno.
La visione di difesa che faccio mia è un concetto ampio. Penso a una difesa dotata di “due braccia”: un braccio civile, non violento e cooperativo, e uno militare, non aggressivo. Oggi nel dibattito europeo esiste solo la dimensione militare, riducendo la sicurezza a un problema di armi. Ma la vera difesa di una società risiede anche nella sua sicurezza sociale: nel welfare, nel lavoro degno, nella coesione. Quando si distorcono enormi quantità di risorse, sottraendole a questi pilastri per destinarle al riarmo, si creano tensioni e disagi sociali che diventano il terreno fertile per le forze populiste e di destra. Questo crea anche un dilemma per le forze progressiste.
Non manca, in fondo, da parte progressista la proposta di una vera alternativa?
È così. A partire dal fatto che si prende atto che l’industria della difesa, come nel caso di Leonardo, crea comunque posti di lavoro qualificati e ben retribuiti. Ma è una posizione miope che non tiene conto di cosa accade quando le risorse pubbliche si concentrano massicciamente su un prevalente capitolo di spesa di questo tipo. La sfida è dimostrare che un investimento altrettanto massiccio nella transizione ecologica e nel sociale, nella cooperazione reciprocamente vantaggiosa tra Paesi e sistemi di Paesi produce risultati migliori in termini di occupazione e benessere diffuso, senza alimentare una spirale di guerra.
Ma esistono ancora forze in grado di opporre resistenza a questa deriva? E quale ruolo può giocare la società civile italiana in questo contesto?
La società italiana si dimostra resiliente e resistente. La situazione è molto diversa in altri Paesi. In Germania, ad esempio, un recente sondaggio ha mostrato come la maggioranza della popolazione sia favorevole al riarmo, ma allo stesso tempo non sia disposta a mandare i propri figli a combattere. Questo prefigura un futuro pericolosissimo, con eserciti composti da professionisti o mercenari, sempre più distaccati dalla volontà popolare.
Per questo, il sindacato e la società italiana hanno un’enorme responsabilità: quella di “contagiare” le altre società europee, che al momento appaiono quasi “anestetizzate” dal bombardamento mediatico e dalla propaganda bellicista.
L’alternativa esiste e deve essere costruita politicamente. La politica di pace non è un tema tra i tanti, ma deve essere considerata “la madre di tutte le politiche”. È su questo fondamento che si devono innestare le politiche sociali, ecologiche e formative. Solo partendo da qui si potrà costruire una vera e credibile alternativa alla deriva globale attuale, ma anche all’orientamento dei vertici Ue e al quadro di governo di Roma. L’Italia ha bisogno di alternativa, per sé stessa e perché è indispensabile per l’alternativa alla politica di guerra.