Niente paura, per favore

"Hai dei documenti che possano provare quanto stai dicendo, delle prove, avvenimenti che possano testimoniare un pericolo di vita qualora tornassi in patria?". Ancora quella domanda, ancora una volta non riusciva a comprenderne il significato. Come poteva provare, soprattutto con dei documenti le persecuzioni di una vita?

 

Lui, il nome è riservato, è nato a Jalalabad, in Afghanistan, e ha quasi trent’anni. Di religione musulmana, è coniugato ed ha quattro bambini. In quanto figlio di un comandante dell’Hizbi-i-Islami con l’arrivo dei talebani, nel 1995, a 17 anni si ritrova in carcere, ed anche dopo esserne uscito subisce persecuzioni da parte dei nemici del padre che lo accusano di alcuni omicidi. Minacce, ritorsioni, agguati. La vita diventa impossibile e l’unica scelta rimane quella di lasciare la propria terra. Arrivato in Italia, fa richiesta di asilo. All’audizione lui parla il dari, un suo amico traduce in farsi e una mediatrice, a sua volta, traduce in italiano. Risultato: diniego, cioè impossibilità a rimanere in Italia, mancato riconoscimento dello status di rifugiato o di una protezione umanitaria. Nessun diritto, né documenti. Per la legge, un irregolare.

 

Una storia come tante, troppe, che segnano la vita di popolazioni in difficoltà. Sono proprio gli afghani (3 milioni) il gruppo più consistente dei rifugiati nel 2007, seguiti dagli iracheni (2 milioni). Le maggiori domande individuali d’asilo sono poi arrivate dalla Somalia, dall’Eritrea, dalla Colombia, dalla Federazione russa, da Etiopia e Zimbabwe, a ricordarci punti caldi del pianeta che non sempre sono sotto i riflettori dei media. Quello che preoccupa, in generale, è l’aumento delle persone costrette a fuggire dalla propria terra. "Dopo cinque anni consecutivi in cui il numero di rifugiati era calato, negli ultimi due anni è stato registrato un aumento", ha affermato Antonio Guterres, Alto commissario delle Nazioni unite per i rifugiati, che ha evidenziato anche come "conflitti, mancanza di standard democratici, instabilità dovuta al rialzo dei prezzi, competizione per le risorse, potrebbero portare in futuro ad un numero ulteriore di movimenti forzati di popolazione".

Un paradosso, sembrerebbe, il fatto che la maggior parte dei rifugiati sia ospitata da Paesi in via di sviluppo, che hanno dimostrato grande generosità nell’accoglierli, spesso molto più di quella messa in campo dagli Stati industrializzati. Fra questi, l’Europa non è ai primi posti e ciò preoccupa, come ci conferma Laura Boldrini, portavoce dell’Acnur (Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati), secondo la quale "l’Europa ha un ruolo cruciale nel mantenimento del diritto d’asilo perché il nostro continente è la culla della Convenzione di Ginevra e quindi del diritto internazionale dei rifugiati. Quando in Europa si registra un calo di attenzione o una riconsiderazione di questo diritto, noi temiamo che questo si rifletta a cascata un po’ ovunque". Venendo al nostro Paese, la Boldrini non manca di evidenziare quanto sia cambiata la percezione del fenomeno migratorio e come l’attenzione sia stata spostata sul contrasto all’immigrazione irregolare, mentre non si è investito in adeguate politiche di integrazione. Con la conseguenza che "le persone vivono la presenza degli immigrati in generale come una minaccia, una fonte di insicurezza. E di questo sono responsabili sia la politica che l’informazione che presenta questo fenomeno sempre in termini allarmistici", avverte la portavoce.

 

Quali passi bisogna fare?

"L’Italia ha compiuto un passo in avanti rispetto alla procedura d’asilo perché ha recepito le direttive europee con dei decreti legislativi, fatto questo che ha riempito un vuoto in attesa di una legge organica che non abbiamo. Quello che manca è l’anello dell’integrazione, cioè investire di più in questa fase che poi è fondamentale rispetto alla capacità dei rifugiati di camminare da soli. Ci sono poi alcune proposte del pacchetto sicurezza che preoccupano… Oggi l’Italia è in linea con gli standard europei. Il governo, invece, vuole riconsiderare questi standard, in particolare per quanto riguarda il ricorso di chi ha avuto il diniego in prima istanza (che dovrebbe prima tornare nel suo Paese e presentarlo da lì, ndr). Ma se una persona viene immediatamente espulsa, è difficile che poi possa effettuare il ricorso dal Paese da cui era scappato. In quanto poi alla possibilità che un cittadino straniero richiedente asilo possa andare a finire nei Centri di identificazione per il semplice motivo che non sapeva cosa avrebbe dovuto fare, questo non accadrebbe se ci fosse un sistema capillare di informazione. È molto probabile che ci siano genuini richiedenti asilo che poi debbano però rimanere in detenzione in tali centri fino a diciotto mesi".

 

Quali sono i nodi da sciogliere per l’iter della richiesta d’asilo?

"L’aspetto importante è che ci sia l’informazione ai valichi di frontiera e che le persone vengano messe in condizione di poter esercitare i loro diritti. A volte, ad esempio, nei porti dell’Adriatico questo non avviene e così alcuni richiedenti asilo vengono rimandati in Grecia dove è stato evidenziato che gli standard di protezione sono assolutamente bassi (basta guardare il tasso di riconoscimento che è dell’1 per cento). A volte poi in questi porti non ci sono interpreti a disposizione delle forze di polizia, oppure gli operatori presenti non vengono informati della presenza di potenziali richiedenti asilo".

 

Alcuni Paesi di altri continenti o del nord Europa hanno una lunga tradizione in fatto di reinsediamento. È un metodo che funziona?

"Sì, è una tradizione che noi sosteniamo e che riteniamo vada presa ad esempio perché è l’unico modo di trasferire legalmente, senza far rischiare la vita, persone che altrimenti sarebbero comunque in pericolo nel Paese di primo asilo dove si trovano, oppure non hanno possibilità di integrarsi e quindi tenterebbero in ogni modo di poter andare via. È anche un modo per sottrarre clienti ai trafficanti. Lo scorso anno per la prima volta l’Italia ha aderito al programma di reinsediamento e questo è un dato per noi molto positivo".

Piccoli passi, dunque, purché portino sempre in avanti, nella direzione della solidarietà e dell’integrazione.

 

LA CARTA DI ROMA

Un documento per i giornalisti che aiuta tutti a fare chiarezza. Reca come data di nascita il 12 giugno 2008 e ad assumerne la paternità ci hanno pensato il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti e la Federazione nazionale della stampa italiana. La Carta di Roma è nata per fissare ulteriori criteri per un’informazione attenta e responsabile, in particolare nei confronti di rifugiati, richiedenti asilo, vittime della tratta e migranti. Si basa su quattro punti: adottare termini giuridicamente appropriati; evitare la diffusione di informazioni imprecise o sommarie; tutelare i richiedenti asilo, i rifugiati, le vittime della tratta ed i migranti che scelgono di parlare con i giornalisti; interpellare esperti ed organizzazioni specializzate per rendere più chiaro il contesto in cui si svolge un determinato fenomeno. Secondo un piccolo glossario allegato alla Carta, un richiedente asilo è colui che fa domanda in un altro Stato per il riconoscimento dello status di rifugiato. Fino al momento della decisione finale da parte delle autorità competenti, ha diritto di soggiorno regolare nel Paese di destinazione. Il richiedente asilo non è quindi assimilabile al migrante irregolare, anche se può giungere nel Paese d’asilo senza documenti d’identità o in maniera irregolare, attraverso i cosiddetti flussi migratori misti, composti, cioè, sia da migranti irregolari che da potenziali rifugiati. Un rifugiato, in base alla Convenzione di Ginevra del 1951, alla quale l’Italia ha aderito insieme ad altri 143 Paesi, è colui che per fondato timore di persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale od opinione politica, si trova fuori del Paese di cui ha la cittadinanza, e non può, oppure, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese. Un beneficiario di protezione umanitaria è colui che, pur non rientrando nella definizione di rifugiato, necessita comunque di una forma di protezione in quanto, in caso di rimpatrio nel Paese di origine, sarebbe in serio pericolo a causa di conflitti armati, violenze generalizzate e/o massicce violazioni dei diritti umani.

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