Niente governo in Libano, i cittadini inventano una nuova moneta

In Libano non c’è un governo stabile ormai da un anno e mezzo. Il Paese va avanti tra molte sofferenze, ma non molla. Non pochi si chiedono se esista veramente una cura per la situazione politica libanese, o se non è meglio tenersi la malattia.

Il famoso principio gattopardesco: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi” pare inapplicabile in Libano. Se fosse stato un politico di Beirut, il nipote del principe di Salina avrebbe probabilmente usato questa formula alternativa: affinché tutto rimanga com’è, bisogna che nulla cambi.

Le dimissioni del governo guidato da Saad Hariri, travolto dalla protesta popolare della saura, risalgono al lontano 19 dicembre 2019, in epoca pre-Covid. Dopo ci sono stati 2 incarichi di governo durati complessivamente qualche mese (prima Diab e poi Adib), intervallati dal default dello Stato dichiarato il 9 marzo 2020 (con un debito estero a 36 miliardi di dollari, di cui il 15% per prestiti impagati o pagati in ritardo) e dall’esplosione nel porto del 4 agosto successivo (su cui è meglio non indagare troppo, pensa qualcuno).

Da ottobre 2020 è stato re-incaricato Hariri (al suo quarto mandato), ma in sei mesi non è riuscito a varare nessun governo per l’impossibilità di accordarsi con il presidente della repubblica Michel Aoun e per il gioco dei veti incrociati. Dunque, di fatto, il Libano è senza un governo stabile da quasi un anno e mezzo.

Nel frattempo, con un debito pubblico al 200% del Pil, la lira libanese svalutata di oltre l’85%, una disoccupazione da paura, la povertà in impennata e il Covid che cammina ad una media di 2.500 nuovi contagi al giorno (in un Paese con poco più di 4 milioni di cittadini, profughi a parte) c’è ben poco da stare allegri. Non entro nel merito di come vivano oggi i libanesi, ne ho scritto su cittanuova.it l’11 marzo scorso, quasi un mese fa. Ma nulla di nuovo da allora è successo a livello governativo.

Proposte di svalutazione o di parziale rifinanziamento del debito, come pure di riforme infrastrutturali, costituzionali o finanziarie, si trovano subito bloccate dagli interessi di chi ritiene di avere ancora qualcosa da salvare e dalle indignate proteste di quelle banche che vedono vicino lo spettro dell’evaporazione. Per non parlare dello scontro non detto, ma che tutti percepiscono, fra gli interessi contrapposti di potenze internazionali che in Libano si guatano e si misurano in vista di accordi che si faranno o non si faranno comunque altrove.

Anche i prestiti e le donazioni internazionali pongono delle condizioni che nessuno è più in grado di garantire, neppure barando. In questo quadro d’insieme, mi fa una certa impressione leggere su L’Orient le jour (il quotidiano francofono di Beirut), frasi come queste: “Nei giorni scorsi il leader del movimento (X) ha escogitato con il leader del partito (Y) un compromesso incentrato sulla costituzione di un gabinetto di 24 ministri (8 invece di sei per ciascuno dei tre schieramenti politici)”. “Mercoledì scorso, il segretario generale di (Z) ha detto che era ora di mettere da parte tutto, aspettative e differenze, e formare il nuovo governo. Parole che sono state interpretate da diversi osservatori come auguranti la possibilità di trovare un compromesso tra i vari protagonisti”. “Saad Hariri… che ha sostenuto la costituzione della squadra di 18 ministri…, deve ora adattare la sua posizione alla formazione di un governo di 24”.

Sembra di assistere ad un dinamico confronto politico, se ci scordiamo per un momento da quanto la cosa va avanti, in che Paese sta avvenendo e quali siano le condizioni in cui vive la gente che vi abita. Non intendo con questo accusare nessuno di superficialità o peggio. Sono più che certo che i protagonisti del dibattito politico libanese siano ben coscienti della drammatica situazione e dei gravi rischi che corre il Paese. Ma nessuno sembra intravedere concrete vie d’uscita e mi viene il dubbio che un immobilismo senza governo sia tutto sommato preferibile, almeno nell’immediato, alle ineluttabili decisioni che un governo istituito non potrebbe ormai più eludere. E non si tratta di trovare soluzioni più o meno impopolari, ma di affrontare una sorta di suicidio politico, se non istituzionale, e comunque qualsiasi cura ipotizzata appare peggiore della malattia. Meglio una malattia cronica, quindi.

Nell’interminabile intermezzo, i libanesi, da bravi levantini, si inventano le cose più incredibili per tirare avanti. Tra fasci di banconote libanesi sempre più carta che moneta (ci vogliono tra 12 e 15 mila lire per un dollaro) e un cambio bloccato ufficialmente (dal governo che non c’è) a 1.507 lire per dollaro, con i depositi in valuta (anche quelli dei cittadini) bloccati e praticamente non riscuotibili, è nata una nuova unità monetaria: il lollar, sintesi di lebanese dollar. Di cosa si tratta? Il lollar è un dollaro statunitense bloccato nel sistema bancario, in pratica è un numero senza valuta corrispondente. Ma, al giusto prezzo ribassato è comunque spendibile tramite ingegnosi artifici contabili. Vale certo meno dei fresh dollars, ma è quasi meglio delle lire, per chi se lo può permettere. In attesa di tempi migliori, che verranno, e sperando che non succeda quello che in un altro Paese sarebbe già successo da tempo. Resilienza senza confronto, e pure simpatica.

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