New York tre anni dopo

A guidare una Oldsmobile di vent’anni si ha l’impressione di viaggiare dentro un pezzo di storia americana. Ma la storia non è una scienza esatta e restiamo senza benzina – nonostante l’indicatore dichiari il contrario – sulla salita del Throgs Neck Bridge, nel Bronx. A quel punto scatta il meccanismo efficienza- solidarietà: un addetto alla manutenzione del ponte parla al telefono e nel giro di dieci minuti un camion ci carica e ci porta dall’altra parte: Servizio gratuito, spiega soddisfatto l’autista. Non c’è il tempo di mettersi a spingere, che una vecchia Mustang rossa, con una coppia di anziani a bordo, si accosta: Serve una mano? l’auto si mette dietro e ci spinge fino al distributore. Radiosa, la signora abbassa il finestrino: Non si può disinteressarsi degli altri. Questa è l’America. Al bar del benzinaio un signore ci raccomanda: Uscite piano, i poliziotti stanno sempre lì dietro e non hanno pietà. Finito il caffè, lo seguo con lo sguardo mentre sale in auto: sul sedile è posata una divisa della polizia di New York. Per quanto possano attirare le opere d’arte e i musei, lo spettacolo più straordinario di questa metropoli è la sua gente, perché è la gente del mondo, con tutte le sue varietà di lingue, religioni e razze, messe insieme a comporre quello straordinario fenomeno storico che è l’esperimento americano. Una ricchezza umana che giustifica l’idea di vivere un’estate per la strada, trascorrendo giornate intere tra autobus e metropolitane. Tra vermi e farfalle New York non nasconde niente, e i suoi mondi sono ben visibili, spesso raccolti nei pochi metri quadrati dello stesso vagone della me- tropolitana. Il primo mondo lo trovi esposto nelle vetrine dei ristoranti di lusso, lo incroci mentre si muove freneticamente dentro i grattacieli delle grandi imprese; e il quarto ti sbatte contro girato l’angolo, dove un senza casa sonnecchia in mezzo agli stracci. Aspetto la metro alla stazione Grand Concourse, sulla 149ma strada, uno snodo importante che connette il Bronx con l’est e l’ovest di Manhattan. Qui, quando piove, piove anche dentro; l’acqua arriva ai binari e, trattenuta dalle traversine laterali, forma un canale profondo una quindicina di centimetri: la spazzatura galleggia, i topi giocano. La polizia, anche qui, ha molte facce. Ha il volto arrogante del giovane in borghese che, all’entrata di Penn Station, ferma una donna con tre figli. Per far passare il passeggino nel quale stava il bambino più piccolo, la donna si era fatta aprire un cancelletto a lato dei meccanismi girevoli; la folla intralciava l’operazione e, per aiutare la mamma, uno dei figli dimentica di obliterare il proprio abbonamento. Il giovane poliziotto estrae il distintivo come nei film e aggredisce: Siete italiani, vero? Sono stato a Roma e nessuno pagava il biglietto: è così che fate voi, ma qui non siamo in Italia. A quel punto compare il padre, che apostrofa il poliziotto a muso duro: Dunque lei a Roma non ha pagato?; il giovane passa alla difensiva: Certo che ho pagato, risponde; E io sto pagando a New York, ribatte l’italiano. Andate, andate, conclude sbrigativamente il poliziotto; e la cosa finisce lì, con la costatazione che anche la Grande mela ha i suoi vermi. E finisce lì perché il poliziotto, un asiatico probabilmente figlio di immigrati, si è trovato davanti un soggetto forte e deciso a creargli dei problemi: come sarebbe finita se avesse fermato qualcun altro? Osservo la scena, che sarebbe potuta accadere in qualsiasi altra grande città dell’Occidente. Ma anche in questo gli Stati Uniti vivono una dimensione maggiore: la massa di persone che arriva qui e che è pronta a subire qualunque umiliazione pur di costruirsi un futuro, lascia un enorme spazio alla discrezionalità di chi detiene un sia pur minimo potere, al quale è arrivato, magari, subendo le stesse umiliazioni che ora infligge. Ma permette anche il dispiegarsi della solidarietà, per chi obbedisce alla propria coscienza. La polizia, infatti, ha anche il volto dell’eroismo. Non solo quello dei soccorritori delle Twin Towers, ma anche quello quotidiano della gente per bene come l’agente Eduardo Delacruz, cinque figli. Lo stanno processando perché si rifiutò di arrestare un barbone, disobbedendo all’ordine del suo sergente: Portiamolo ad un rifugio per i senza casa, anziché arrestarlo, propose, ma non ci fu niente da fare. La disobbedienza gli è già costata un mese di sospensione senza stipendio; se sarà condannato, verrà espulso dalla polizia e perderà la pensione. E su questo caso si dibatte, e anche un piccolo fatto come questo fa emergere la passione americana per la discussione sui diritti visti nella loro concretezza. Di fronte ad esempi come questo, spero che anche il giovane poliziotto arrogante, uscito da suo bozzolo, sappia trasformarsi in farfalla. Nonostante gli attentati e la difficile situazione internazionale, gli Usa hanno continuato ad accogliere la consueta marea di immigrati. È facile conoscere le loro storie; te le raccontano semplicemente: basta stare seduti una decina di minuti in metropolitana e, se non attacchi bottone tu, lo fa chi ti siede vicino. Abel, ad esempio, arrivò a Roma dalla Somalia quando era ancora un ragazzino. Aveva con sé due fratelli più piccoli e raccattava da mangiare attorno alla stazione Termini. Dio mi ha voluto bene dice, e sa quel che dice: un sacerdote di don Zeno li raccolse tutti e tre e li portò alla Città dei ragazzi. Dopo qualche anno, imparato un mestiere, è riuscito a portare in Italia la mamma e gli altri fratelli. Ora vorrebbe farli arrivare negli Stati Uniti; dopo un periodo a Washington, ha trovato un buon lavoro in un albergo di Manhattan: In cucina si parla di tutto: sport, soldi, ragazze; ma non si parla mai di politica. In tutto l’albergo ci sono telecamere interne e il personale è sorvegliato costantemente. In Italia, secondo Abel, si vive molto meglio, ma la speranza è qui: Non c’è limite al lavoro, devi vivere per il lavoro, ma il lavoro c’è, anche se è difficile trovare un lavoro buono come il mio: i padri della Città dei ragazzi di New York hanno detto che sono un bravo ragazzo, per questo mi hanno preso; ma se non sei aiutato è difficile, puoi fare solo lavori brutti. E indica una donna ispanica, con la sua piccola mercanzia di penne, orologi, batterie elettriche, che proprio in quel momento viene fermata da un poliziotto dentro il vagone. I venditori abusivi evadono le tasse e contro di loro vale la tolleranza zero. Diverso è il comportamento della polizia verso gli immigrati – clandestini – che si notano a gruppi a certi incroci: vengono assunti a giornata per lavori che nessun altro, qui, vuole fare; dunque sono utili, e sulla loro irregolarità si chiudono tutti e due gli occhi; all’uscita dalla metropolitana, sotto il ponte di Westchester Station, un furgoncino ne carica sette o otto, proprio mentre passa una macchina della polizia. Ai terminali di Coney Island controllo l’elenco di molti Antonio Baggio sbarcati qui con le loro valige di cartone per ‘ndare in ‘Merica. La metropolitana di New York è stata costruita a partire dagli inizi del Novecento, e la maggioranza dei lavoratori che maneggiava carriola e piccone, lasciandovi sangue e sudore, era italiana. Le stazioni più vecchie conservano, oggi, le finiture di allora; passo la mano sui mosaici che compongono il nome delle fermata, e mi pare di sentire il calore delle ruvide mani italiane che li posarono cent’anni fa. Oggi, come cent’anni fa, il vero nome dell’America è speranza. E dentro di me mi arrabbio ancora di più con chiunque pensi che l’America sia solo sua, e creda di avere il diritto di rovinarla. Che cosa ti ha dato l’America? Lo chiedo ad un vecchio amico, negli Usa da vent’anni. Mi ha permesso di vivere del mio lavoro: ho costruito una famiglia, ho comprato una casa. Sono un artista e in Italia – ci ho provato – non sarei mai riuscito a farlo. Quando guardo i miei figli sento di dovere molto all’America. E che cosa ti ha tolto? La comunità. In Italia ce l’avevo, qui non sono riuscito a ritrovarla né a costruirla. L’America ti dà la possibilità di vivere, ma che cosa ti chiede in cambio? Ci sono alcune idee alle quali bisogna aderire senza riserve: riguardano la fedele e acritica appartenenza ad una nazione considerata sempre portatrice di giustizia e libertà. Tutti i bambini cominciano la loro giornata, a scuola, recitando il Credo, una preghiera ufficiale che espone la fede nella nazione. La pressione ideologica che afferma l’identità nazionale americana è fortissima e costante, e si traduce nell’aspettativa di un comportamento patriottico il quale, spesso, diviene il dovere di appoggiare sempre e comunque quel che è deciso dal potere politico. Sembrerebbe impossibile, sotto una tale pressione, che si potesse sviluppare anche un pensiero critico, che è condizione della conservazione della libertà; e che, invece, esiste, come mi dimostra una cena con alcuni giovani americani. Ho ventiquattro anni, ma non ho mai votato; mi sono sempre tenuto alla larga dalla politica, perché penso che tiri fuori il peggio dalle persone. Ma l’11 settembre ha cambiato qualcosa anche per Mark: Dopo gli attentati, ho cominciato a leggere e a interessarmi, e a novembre darò il mio voto. Molte persone – spiega John, vent’anni, di origine filippina – sono disposte a rinunciare a dei diritti civili pur di avere la sicurezza. Questo si traduce in una adesione acritica alle decisioni del governo. In molti ambienti non si può neppure mettersi in contrasto con le idee del presidente, perché sembra una cosa non patriottica. Eppure, sono americani, e patrioti, anche quelli che non la pensano come Bush. Tra giugno e agosto i sondaggi preelettorali oscillano di poco: danno il quadro di un paese diviso quasi esattamente a metà: a determinare l’esito sarà il dieci per cento ancora indeciso. Tra i cattolici la maggioranza sembra a favore di Bush, nonostante Kerry possa diventare il primo presidente cattolico dopo Kennedy; un elemento importante di questa campagna elettorale, sottolinea John, è dato dalle questioni morali: i matrimoni omosessuali, l’uso delle cellule staminali degli embrioni, l’aborto: Molti cristiani voteranno per Bush esclusivamente perché le sue posizioni su queste materie concordano con le indicazioni delle chiese. Dico anch’io la mia: mi sembra moralmente giustificato votare per Bush per questi motivi; ma è ugualmente giustificato, anche per un cristiano, votare per Kerry, non a causa delle posizioni dei democratici sui temi della bioetica, ma per le loro posizioni nei confronti dei problemi internazionali e delle politiche sociali: il cristiano, dato che non trova soddisfatte tutte le sue aspettative in uno solo dei due candidati, dovrebbe stabilire, in coscienza, una gerarchia di importanza fra tutti questi temi, e votare di conseguenza. Quello che non capisco – interviene Charlie – è perché Bush sia contro l’aborto e a favore della pena di morte: non mi sembra che in questo modo difenda il valore della vita in ma- niera coerente; senza contare, concludo io, le vite stroncate in una guerra – quella irachena – contro la quale, se proprio vogliamo metterci dal punto di vista dell’elettorato cattolico, si è esplicitamente espressa la Santa Sede. L’ombra del 9/11 Non credo fosse mai successo, prima, che il best seller di un’estate newyorkese, anziché un libro giallo o un romanzo da spiaggia, fosse un rapporto di una Commissione del Congresso. Eppure le 567 pagine di The 9/11 Commission report, il volume contenente il rapporto finale sugli attentati del settembre 2001, sono andate a ruba, al punto che, nella Grande Mela, chi non l’ha acquistato il giorno stesso dell’uscita, ha dovuto attendere dieci giorni per la ristampa. Il libro in effetti si legge, a tratti, come un romanzo giallo, che scava nel dolore pagina dopo pagina, come solo la verità sa fare. La Commissione, composta da repubblicani e democratici, ha documentato la fondamentale impreparazione impreparazione degli Usa all’attacco terroristico; ha esibito le leggerezze di valutazione, l’inadeguatezza delle varie agenzie di intelligence, poco collaborative fra di loro, nel prevenire l’attacco di cui, pure, si conoscevano numerosi segni. L’opinione pubblica è stata fortemente scossa dalla dimostrazione di tale debolezza; ma anche, paradossalmente, è sembrata, in un certo senso, sollevata per il fatto che la responsabilità viene equamente suddivisa, dal rapporto, fra l’amministrazione di Clinton e quella di Bush; la quale dunque, almeno da questo punto di vista, uscirebbe scagionata: l’impreparazione era una deficienza del sistema che, di conseguenza, va riformato. Da qui l’insistenza, da parte della Commissione, per istituire un controllo unificato delle varie Cia, Fbi, ecc., e per conferire loro una indipendenza sufficiente ad evitare che il potere esecutivo possa condizionare la raccolta e l’elaborazione dei dati. E questo è un aspetto del dibattito in corso. L’altro aspetto, parimenti importante, sul quale il rapporto ha gettato luce, è l’assenza di effettive prove sia sull’esistenza di legami fra Saddam Hussein e i terroristi di Al Qaeda, sia sul possesso di armi di distruzione di massa da parte del dittatore iracheno: le principali ragioni che il presidente Bush aveva presentato al proprio paese e alla comunità internazionale per dimostrare la necessità della guerra contro l’Iraq, non sussistevano. Su questa base, Bush dichiara che, sapendo quello che si sa oggi, la guerra l’avrebbe fatta ugualmente; i democratici, invece, diversificano le loro reazioni: c’è chi accusa il presidente di avere mentito al paese e di averlo forzato verso una guerra che si poteva evitare; altri, pur non arrivando a questa denuncia gravissima, gli attribuiscono i numerosi errori oggi evidenti: non avere preparato seriamente la gestione della pace, lo smantellamento dell’apparato amministrativo e dell’esercito iracheni, la sottovalutazione delle differenze religiose e culturali, l’avere consentito che si creassero le condizioni per il fenomeno delle torture nelle carceri. Ciò che il Rapporto non dice, ha sottolineato il generale Clarke, è se dopo la guerra irachena il terrorismo è più debole o più forte. Il punto centrale della questione lo ha riassunto efficacemente l’ex presidente Bill Clinton, alla Convenzione Democratica di fine luglio, quando ha detto che, dopo l’11 settembre, Il presidente ebbe una grande opportunità di portarci insieme sotto il suo slogan di un conservatorismo compassionevole e di unire il mondo in una causa comune contro il terrorismo. Tuttavia, egli e i suoi alleati al Congresso fecero una scelta molto diversa: usare il momento di unità per spingere l’America troppo lontano dal giusto e ad allontanarsi dai suoi alleati. Il punto è proprio questo: l’interpretazione che Bush ha dato della presidenza. Nella vita politica statunitense il presidente ha un grande potere, che diventa enorme quando le circostanze mettono in pericolo il paese: la presidenza diventa il punto di unità con il quale tutta la nazione si identifica, come fa un esercito con il suo generale. Opporsi al presidente in momenti di questo tipo è difficilissimo, come dimostrò l’esito del voto con il quale il Congresso sancì la decisione della guerra irachena: tutti favorevoli, tranne il senatore Dean. Eppure, fino a qualche giorno prima, c’era stato chi aveva espresso la propria diversità di vedute; ma, arrivati al momento cruciale, votare contro sarebbe sembrato un atto non patriottico. Nel corso della loro storia gli Usa hanno dimostrato di essere capaci, passato il momento critico, di mettere sotto accusa il presidente e di arrivare anche a censurarlo: anche per questo sono una grande democrazia. Ma rimane il problema di prevenire il verificarsi di queste situazioni profondamente pericolose, che fanno apparire l’opposizione come un tradimento trasformando la presidenza in un potere irresistibile: quel tipo di potere che fa venire meno quell’equilibrio tra i poteri e quella libertà di critica sui quali si regge ogni democrazia. Dopo, infatti, si può punire il presidente, ma le decisioni che ha preso possono avere prodotto danni irrimediabili. Esiste certamente una responsabilità da parte di chi, membro del Congresso, non si è opposto con efficacia alla linea presidenziale. Ma è grave la responsabilità dell’attuale amministrazione, che ha usato la de- bolezza psicologica di un paese gravemente colpito per prendere decisioni ingiustificate, sulla base di informazioni costruite o selezionate appositamente per accreditare e far accettare una strategia internazionale già pronta prima degli attentati. Per questo la Commissione sull’11 settembre ha raccomandato una maggiore indipendenza delle agenzie di intelligence dall’esecutivo; per questo Bush, nonostante la nomina di un coordinatore delle agenzie, non è disposto a concederla. Il problema va risolto, perché i presidenti passano, ma l’America resta; e l’America deve imparare a difendersi dalla possibilità di compiere questo tipo di errori; che non accadrebbero, se non fosse quotidianamente all’opera una forma di ideologia americana, che identifica gli Usa, sempre e comunque, con il meglio dell’umanità, che distorce gli autentici ideali di questa grande nazione. Per amore della verità, nel discorso di Clinton bisogna distinguere un’esatta intuizione da alcune palesi bugie. La sua osservazione, se riferita alla decisione di Bush di muovere guerra all’Iraq, costituisce un’indicazione importante e da approfondire. Clinton, però, sostiene anche che Bush ha sfruttato l’unità del paese per togliere l’appoggio degli Usa ad iniziative internazionali quali il Trattato sul clima e la Corte penale internazionale, come se gli Usa, sotto l’amministrazione democratica, avessero convintamente appoggiato queste iniziative internazionali: e non è vero. Nel caso della Corte internazionale, ad esempio, Clinton firmò l’adesione statunitense solo dopo che la quota di ratifiche da parte degli Stati, necessaria per far nascere la Corte, era già stata raggiunta; a quel punto, l’adesione degli Usa, che precedentemente si erano opposti con tutti i mezzi alla Corte, diventava ininfluente; e firmò l’ultimo giorno del suo mandato, nella certezza che non ci sarebbero state conseguenze. È un’ipocrisia che disturba, e che suggerisce prudenza nelle aspettative di un cambiamento nella posizione internazionale degli Stati Uniti, nel caso di vittoria dei democratici. La promessa di Kerry La Democratic Convention di fine luglio, a Boston, ampiamente seguita dai mezzi di comunicazione, non ha provocato quell’innalzamento dei consensi verso i democratici che molti si aspettavano; e Bush non ha ancora dato fuoco a tutte le sue polveri: l’analoga riunione dei repubblicani si terrà, infatti, solo a fine agosto. Ma il pensiero di Bush abbiamo avuto modo di conoscerlo, in questi quattro anni; la Convention ha invece imposto il candidato Kerry all’attenzione del paese, che si sta familiarizzando col modo di ragionare dello sfidante, spontaneamente portato alle sfumature, ai condizionali: a tutto ciò, insomma, che rende la comunicazione politica meno efficace, ma che dà l’idea che dentro la testa di Kerry ci sia un cervello. Il suo discorso di accettazione della designazione a candidato democratico alla presidenza contiene le linee programmatiche del suo operato se sarà eletto, e chiarisce subito che vuol fare un’America più forte a casa e rispettata nel mondo: contro un Bush che punta moltissimo sul tema della sicurezza, Kerry mette proprio la sicurezza e la lotta al terrorismo al primo punto del programma. La sua insistenza su questo punto e la moderazione dei toni su tutte le altre questioni ha scontentato non pochi democratici, ma Kerry deve respingere l’accusa repubblicana di essere troppo liberal: la battaglia per la presidenza si gioca proprio sulla conquista degli elettori moderati indecisi. La casa americana di Kerry è quella dove i miei genitori mi hanno mostrato i valori della famiglia, della fede, del paese; può suonare strano, ad orecchie europee, che il discorso si apra, in sostanza, con una proclamazione del trittico Dio, patria, famiglia: ma queste parole, negli Usa, suonano molto diverse che Brendan McDermid/Ansa in Europa; ed è importante, per Kerry, comunicare agli statunitensi che i valori non sono appannaggio dei repubblicani. Kerry inscrive la sua azione politica all’interno della tradizione kennediana: I miei genitori mi hanno ispirato il servizio, e quando ero un ragazzo alla scuola superiore, John Kennedy chiamò la mia generazione al servizio. Era l’inizio di un grande viaggio – un’epoca per marciare per i diritti civili, per i diritti di voto, per l’ambiente, per le donne, per la pace. Noi credemmo di poter cambiare il mondo. E sapete una cosa? Lo abbiamo fatto. Ma non abbiamo finito. Oggi, sostiene il candidato democratico, la marcia deve riprendere. Ed egli la presenta come un ritorno alla più autentica tradizione americana, che l’attuale presidente avrebbe interrotto: Gli Stati Uniti d’America non vanno in guerra perché noi lo vogliamo, ma solo perché dobbiamo. L’America che Kerry ha in mente è un paese che si deve guadagnare nuovamente il rispetto e l’amicizia perduti. Ma che non ha alcuna intenzione di rinunciare al ruolo di leadership che la sua forza le consente: Ho difeso questo paese da giovane e lo difenderò da presidente. Che non ci siano equivoci: non esiterò mai ad usare la forza quando sarà necessario. Ogni attacco troverà una risposta rapida e certa. Non conferirò mai ad alcuna nazione o istituzione internazionale un veto sulla nostra sicurezza nazionale. E costruirò un esercito americano più forte. Ma la lezione irachena è stata intesa: Kerry intende ristabilire le alleanze tradizionali degli Usa che l’amministrazione Bush ha fatto venire meno con le sue decisioni unilaterali: senza alleati, ha dichiarato esplicitamente, non si può vincere i terroristi: In questi giorni pericolosi c’è un modo giusto e uno sbagliato di essere forti… Abbiamo bisogno di essere stimati e non temuti. Oltre al tema della sicurezza, l’altro grande argomento della campagna democratica riguarda le politiche sociali, sulle quali la differenza rispetto ai repubblicani è netta: Kerry parla contro i tagli al doposcuola e contro la privatizzazione della sicurezza sociale; si impegna sul fronte del miglioramento delle scuole pubbliche e dell’assistenza medica; denuncia l’aumento dei poveri e le crescenti difficoltà delle famiglie; parla a coloro che devono fare due o tre lavori per tirare avanti, dimostra di conoscere le difficoltà economiche del ceto medio. Gli afro-americani e i sindacati sono con Kerry. Ai primi di novembre è probabile che gli elettori attribuiscano ai due contendenti un analogo impegno sul fronte della sicurezza e che a decidere le sorti del voto sia l’andamento dell’economia: la maggior parte degli statunitensi, infatti, vuole poter continuare il proprio stile di vita e, possibilmente, migliorarlo; e darà il voto a colui che apparirà garantire il maggior benessere. Attualmente repubblicani e democratici sono impegnati in una guerra dei numeri, per dimostrare, gli uni, che tutto va per il meglio e gli altri, all’opposto, che tutto potrebbe andare molto meglio. Ma non è una disputa tecnica: è anche una battaglia ideologica, con Bush convinto che se le cose vanno per i ricchi, allora tutti stanno meglio; e Kerry che vuole invece interventi diretti a favore dei poveri: quasi uno scontro di classe. Ma l’aspetto che più colpsce nel discorso di Kerry è un altro, e riguarda la diversa interpretazione che i due antagonisti per la presidenza danno della natura religiosa degli Stati Uniti. Davanti ad un Bush che ha costantemente ripetuto Dio è con l’America, Kerry interpreta una posizione molto distante: Io non voglio dichiarare che Dio è dalla nostra parte. Come Abraham Lincoln ci disse, voglio pregare umilmente che noi siamo dalla parte di Dio. Anche di questo gli americani dovrebbero tenere conto al momento della scelta: se vogliono un presidente che dice a Dio dove stare, o un presidente che si chiede dove Dio lo vorrebbe. .

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