New York è una città a parte negli Usa, lo sa anche chi non c’è mai stato e quando vi arriva sente in qualche modo di averla già conosciuta perché appartiene all’immaginario collettivo, effetto del soft power dell’impero di cui facciamo parte. Per tale motivo la possibile elezione di un giovane musulmano di origini indiane alla carica di sindaco della Grande Mela genera un grande interesse, anche perché Zhoran Mamdani si dichiara socialista, un termine che pareva ormai bandito in un Paese che pure ha conosciuto nel secolo scorso forme di forti mobilitazioni sociali, sino all’anarchismo di Sacco e Vanzetti, emigrati italiani ingiustamente condannati a morte nel 1927.
Anche se o, forse, proprio perché proviene dalla metropoli dove ha eretto la sua sontuosa Trump tower, il presidente Usa non è amato da larga parte dei suoi concittadini che professano una fisiologica appartenenza all’elettorato democratico, tanto da rendere solo di bandiera la candidatura del Grand old party a New York.
Ma stavolta sembra proprio che all’inquilino della Casa Bianca si presenti la possibilità di essere decisivo nelle urne che si apriranno il 4 novembre con il sostegno ad Andrew Cuomo, il candidato uscito sconfitto dalle primarie democratiche, ma al quale non mancano risorse e finanziamenti dei gruppi tradizionalmente influenti del suo partito che lo ha eletto per tre mandati, dal 2011 al 2021, come governatore dello Stato di New York. Un politico di razza, come si usa dire da ogni parte, figlio di Mario Cuomo, anch’egli per 10 anni governatore dello Stato di New York, figura di spessore che poteva ambire alla carica presidenziale anche se penalizzato dalla sua ferma opposizione alla pena di morte.

Andrew Cuomo. EPA/SARAH YENESEL
In tempi in cui non mancano le fonti per un’informazione approfondita, come dimostra il sacrificio dei giornalisti palestinesi morti a centinaia a Gaza, anche chi non vive nel “centro dell’impero” può farsi un’idea delle questioni in gioco.
Il canale tv Democracy Now è facilmente raggiungibile sul web e appare inconfondibile già dallo stile non griffato della storica conduttrice Amy Goodman. Per chi vuole, esiste una valanga di materiale di prima mano per conoscere in diretta il pensiero di Zhoran Mamdami, nato nel 1991 a Kampala in Uganda, da Mira Nair, regista indiana originaria del Punjab e di religione induista; e da Mahmood Mamdani, docente presso la Columbia University di New York. Il legame con il padre è uno dei problemi sollevati frequentemente dai critici del candidato sindaco, in forza della materia di insegnamento del professor Mahmood, esperto di colonialismo.
In Italia Meltemi Editore ha pubblicato un suo studio, Né coloni né nativi. Lo stato nazione e le sue minoranze permanenti, che propone una genealogia della modernità a partire dal genocidio e dall’internamento nelle riserve dei nativi americani come modello di riferimento adottato poi dalla Germania nazista, Sudafrica, Sudan e, infine, Israele. Una critica radicale della violenza intrinseca dello Stato-nazione. Nel testo si mette in evidenza, ad esempio, l’approccio riduttivo del processo di Norimberga del 1945-46 incentrato sulla responsabilità individuale dei gerarchi del regime hitleriano invece che sulle radici strutturali di un sistema che ha numerosi colpevoli rimasti nascosti. Parliamo, quindi, di una prospettiva molto più esigente e profonda di un formalismo politicamente corretto.
A certe affermazioni di analisi di Mamdani padre, si risale da certa stampa per accusare il figlio Zhoran di aver adottato tesi che legittimano forme di terrorismo palestinese di marca islamista, creando incertezze tra la folta comunità ebraica di New York orientata tradizionalmente verso il voto democratico. Una strategia che può rivelarsi efficace per affossare l’elezione del giovane esponente di quella che Luciana Grosso, autrice di un libro su Zhoran Mamdani, definisce «la nuova sinistra americana, quella dei Democratic Socialists of America, che rifiuta i compromessi del centrismo e propone un’agenda esplicitamente egualitaria, attenta ai diritti sociali, alla redistribuzione e al welfare».
New York appare perciò come un laboratorio politico di carattere globale come dimostra, a prescindere dell’adesione di Washington alla corte penale internazionale, la promessa esplicita del candidato socialista di arrestare senza indugio Netanyahu come criminale di guerra non appena il premier israeliano dovesse sbarcare all’aeroporto JFK. Eventualità niente affatto remota, considerando lo strettissimo rapporto esistente tra gli Usa e Israele e soprattutto Netanyahu che parla con evidente accento statunitense. Mamdani descrive il massacro di Gaza come un “genocidio” ed esplicita la “complicità” degli Stati Uniti nel suo finanziamento.
Passando invece alle questioni concrete e “locali”, il fulcro della campagna di Mamdani è un programma volto ad affrontare la crisi del costo della vita a New York. Cita le parole di Martin Luther King (“Chiamatela democrazia o chiamatela socialismo democratico, deve esserci una migliore distribuzione della ricchezza“) per avanzare alcune proposte come il blocco degli affitti, l’assistenza gratuita all’infanzia per le famiglie e molte altre misure come il miglioramento del servizio degli autobus e la creazione di negozi di alimentari di proprietà della città per abbattere il costo della vita.
Spese che vanno finanziate attraverso l’incremento del 2% sull’imposta sul reddito per l’1% più ricco dei newyorkesi (cioè coloro che guadagnano un milione di dollari o più all’anno) e allineando l’aliquota fiscale massima per le società a quella vigente del New Jersey.
Proposte che allarmano l’establishment tradizionale del partito democratico e mandano su tutte le furie Donald Trump, che sostiene Cuomo e attacca Mamdani definendolo un “comunista”, oltre a minacciare di indagare sulla possibilità di deportarlo.
Da parte sua Mamdani si propone di contrastare l’agenda di Trump fatta di tagli alla sanità e ai buoni pasto per i più poveri. Intende assumere almeno 200 avvocati aggiuntivi nel dipartimento legale della città per contrastare le politiche federali dannose. La sua strategia elettorale si è concentrata fin dall’inizio sul coinvolgimento di elettorati spesso trascurati dalla politica tradizionale, come i giovani, le comunità sud-asiatiche e quelle musulmane, senza per questo trascurare anche l’elettorato ebraico più attento alle questioni sociali, come l’associazione Bend the Arc: Jewish Action che lo sostiene convintamente.
Resta in forse il sostegno del partito che lo ha scelto come candidato con il metodo delle primarie, anche se Mamdani ha avuto diversi incontri con i leader democratici nazionali, soprattutto il leader della minoranza Hakeem Jeffries e il senatore di lunga data Chuck Schumer ben radicato nei quartieri di New York.
Per avere comunque un’idea più approfondita dell’ispirazione che muove il candidato socialista per la Grande Mela, è molto istruttivo il dialogo tra Mamdani e Bernie Sanders, punto di riferimento della sinistra statunitense, ostacolato dalla struttura interna del partito democratico nella corsa verso la candidatura per la presidenza nella contesa con Hilary Clinton, poi sconfitta da Trump nel 2016.

Bernie Sanders alla manifestazione ‘New York Is Not For Sale’. EPA/SARAH YENESEL
Sanders, nonostante l’età avanzata, ha una forza tale che lo spinge, a differenza della paralisi che pare aver colpito i democratici, a girare i vari stati Usa per incontrare persone e comunità dal vivo, per dimostrare la ragionevolezza delle politiche intese a fermare lo strapotere degli oligarchi della finanza.
Ebreo di New York, Sanders, prima di emergere nelle primarie democratiche, ha svolto per una vita intera attività politica come senatore indipendente dello stato montano del Vermont sdoganando la parola socialista.
In un video in cui Mamdani fa da intervistatore, il vecchio Bernie racconta la sua esperienza politica diretta cominciata con la candidatura a sindaco di Burlington, cittadina capoluogo della contea di Chittenden nello Stato del Vermont, proprio nel momento di grande ascesa di Ronald Reagan, espressione massima dell’ideologia liberista.
Il modello che emerge dall’esperienza, cominciata a partire dal territorio, è basato su tre pilastri fondamentali: un coinvolgimento diretto e capillare delle comunità a basso reddito e della classe lavoratrice, il superamento dell’ostruzionismo politico attraverso la mobilitazione popolare e l’implementazione di politiche capaci di dare risposte credibili ai bisogni concreti delle persone e alle esigenze più profonde di coesione e solidarietà sociale.

Autore sconosciuto – Bread and Roses Strike of 1912: Two Months in Lawrence, Massachusetts, Public Domain, https://commons.wikimedia.org
In sostanza il “pane e le rose” che i due interlocutori citano esplicitamente con riferimento alla storia del movimento operaio negli Usa e precisamente lo sciopero organizzato contro lo strapotere delle multinazionali dell’epoca il 19 gennaio 1912, a Lawrence, centro tessile del Massachusetts. Evento passato alla storia con il nome di “Sciopero del Pane e delle Rose” e tramandato da un canto i cui versi furono scritti da un operaio e sindacalista molisano, Arturo Giovannitti, in onore di una giovane operaia, Anna Lo Pizzo, rimasta uccisa negli scontri con la polizia.
La vittoria di Mamdani in una grande città come New York, secondo Sanders, non sarebbe un evento locale, ma un messaggio a tutto il Paese per dimostrare che “il vero cambiamento è possibile” e che la città “non è in vendita”.
La questione centrale è “se prevarrà la volontà del popolo o se gli oligarchi e i miliardari continueranno a governare la città“. Parole che mettono in evidenza la realtà di una partita aperta e che appare contendibile fino alla fine.