New York, 11 settembre 2001: un giornalista a Ground Zero

C’è un momento in cui la figura del giornalista e quella di un operatore umanitario si avvicinano sensibilmente fino quasi a sovrapporsi. È questo il caso di John Chievers, giornalista vincitore di Pulitzer del New York Times. Un modo per ricordare il crollo delle Torri Gemelle dell’11 settembre del 2001, a distanza di 22 anni.
9 11 Memorial (Foto di Miriana Dante)

L’undici settembre 2001 a New York erano previste le primarie democratiche per la candidatura a sindaco della città e già dal mattino presto il cronista John Chievers aveva raggiunto il centro di Manhattan per seguire gli sviluppi del voto dalla sede del comitato elettorale.

Entrato al New York Times da appena un anno e mezzo, indossava i suoi abiti migliori. Uno schianto interruppe il suo lavoro. Corse verso il World Trade Center e arrivò proprio mentre il secondo aereo penetrava come una lama la torre sud. Intorno a lui iniziarono a cadere detriti di ogni genere: pezzi di cemento, travi d’acciaio, scrivanie di metallo, persino corpi. Camminava in una coltre di polvere, come neve scura finissima e friabile. Poi uno stridore metallico, una specie di terremoto. La torre sud era crollata.

In questa foto di archivio dell’11 settembre 2001, un uomo ricoperto di polvere e detriti del crollo della torre sud del World Trade Center tossisce vicino al Municipio di New York. A due decenni dal crollo delle torri gemelle, le persone continuano a farsi avanti per segnalare malattie che potrebbero essere collegate agli attacchi. (AP Photo/Amy Sancetta, File)

Per tutte le 24 ore successive, il giornalista rimase nei dintorni di quello che sarebbe stato definito Ground Zero. Quando ne uscì per riportare le notizie al suo giornale e per rientrare finalmente in casa, aveva i piedi sanguinanti e i vestiti laceri.

Quella sera stessa John Chievers sarebbe andato di nuovo nelle macerie, con indosso vestiti pratici, dei jeans, degli scarponi e una maglietta militare che gli era rimasta dai sette anni trascorsi nei marines. Il giornalista entrò in Ground Zero, confondendosi tra i corpi di polizia già presenti sul posto. Divenne una sorta di spazzino, un garbage man, addetto a riempire e svuotare sacchi di detriti.

D’altra parte, questa sua azione di cuore e coraggio ricorda un po’ ciò che è scritto in maniera inequivocabile nel Codice del giornalismo americano, un dovere di aiuto e vicinanza alla collettività, un’ideale di public service che rende il lavoro di reporter mestiere e missione. Cristopher John Chievers rimase nel Ground Zero a dare una mano, non poteva più uscire perché con il tempo i controlli si erano intensificati.

In questa foto d’archivio dell’11 settembre 2001, i vigili del fuoco lavorano sotto i montanti distrutti, i pilastri verticali che un tempo fronteggiavano le svettanti pareti esterne delle torri del World Trade Center, dopo l’attacco terroristico alle torri gemelle a New York. (AP Photo/Mark Lennihan, File)

Racconta sul New York Times della sua esperienza: «Gli abitanti di quella sorta di villaggio che era Ground Zero mangiavano insieme in ristoranti abbandonati e accanto a pile di rifiuti putridi, si addormentavano insieme dovunque capitava, singhiozzavano e pregavano insieme, e man mano che prendevano confidenza con il nuovo paesaggio emerso nella zona meridionale di Manhattan, si scambiavano informazioni […]».

Grazie al suo importante contributo, il New York Times rese Chievers corrispondente di guerra e lo mandò in Afghanistan. Fu lì che, negli ultimi giorni del 2001, il giornalista scrisse il lungo reportage che gli valse il Premio Pulitzer. «Sono mondi paralleli, Manhattan e l’Afghanistan, pieni di contrasti e di tratti in comune. Impartivano continuamente due lezioni: che la verità dipende dalla tribù a cui si appartiene, e che il potere della sorte è quasi assoluto».

Ancora Chievers racconta nel reportage un breve episodio, ma toccante: «La neve scricchiolava sotto gli scarponi da montagna. Durante una pausa nella traversata dell’Hindukush, i portantini si erano radunati per chiedere da dove venivano i due stranieri. “Londra? Germania? America?”, ha detto uno. Noi stavamo cercando di rimettere il gruppo in marcia per arrivare a Kabul il prima possibile. “New York”, ho risposto frettolosamente, sul punto di andarmene. Il portantino mi ha bloccato prendendomi per un gomito, facendo in modo di incrociare il mio sguardo. Quando ha parlato ha usato la pronuncia lenta di chi si sta avventurando in una lingua che non gli è familiare, ma vuole farsi sentire. Ha annuito -un cenno così profondo che poteva quasi essere un inchino- poi ha portato le mani fino all’altezza degli occhi e le ha abbassate, sventolandole, fino alla vita. Il significato era ovvio, anche in mezzo a quelle montagne altissime in un angolo remoto della terra. Le torri che cadevano. “New York”, ha detto il portantino afghano. “Noi dispiace molto”».

Le torri gemelle del World Trade Center bruciano dietro l’Empire State Building di New York l’11 settembre 2001. (AP Photo/Marty Lederhandler, File)

Il 14 gennaio 2001 sul New York Times l’autore Stephen Engelberg, Premio Pulitzer 2002 nella categoria «giornalismo d’inchiesta», così racconta: «Nel 1987 […] Osama Bin Laden ebbe una visione […] Una jihad globale, una guerra santa planetaria contro i corrotti governi secolari del Medio Oriente musulmano e contro le potenze occidentali che li appoggiavano».

Poi il titolo del Wall Street Journal, 12 settembre 2001, nero su bianco, irreale: «Terroristi distruggono il World Trade Center e colpiscono il Pentagono in un raid con aerei dirottati. La Nazione preda dell’orrore e dell’incredulità». Grazie alla raccolta di articoli dei premi Pulitzer intitolata «New York, ore 8:45» a cura di Simone Barillari, edita da Minimum Fax, è possibile raccontare il crollo tramite voci autorevoli. Tra i vari racconti, anche quello di John Chievers.

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