Nella terra dei puri

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È l’ora del tramonto. All’aeroporto altoparlanti e televisioni diffondono la voce stentorea e l’immagine del muezzin che narra la grandezza e la misericordia di Dio, invitando alla preghiera della sera. In un angolo alcuni uomini hanno steso i tappeti e si prostrano in direzione della Mecca. Lungo il viaggio che da Karachi mi porterà a Rawalpindi, Lahore, Multan, tutto mi ricorda che sono in terra islamica, anzi nella prima repubblica islamica. La capitale, costruita pochi anni fa, porta il nome di Islamabad, città dell’Islam. Ogni telegiornale inizia immancabilmente con una preghiera. Assieme a Israele, il Pakistan è il primo stato confessionale, nato dal desiderio dei musulmani dell’India britannica di mettere in pratica i dettami del Corano. Sembrava loro impossibile attuare alla lettera gli ideali islamici in un paese dominato dall’induismo. Muhammad Iqbal, idealista e poeta nazionale, già attorno agli anni Trenta sognava una terra di “uomini puri” e coniò l’espressione Pakistan (terra dei puri) quale acrostico delle quattro religioni che avrebbero dovuto costituire il futuro stato. Esco dall’aeroporto e la visione di un Islam “puro” mi appare subito inquinata dall’unico edificio che domina la spianata: un Mc Donald’s. Un contrasto che mi si manifesta lungo tutto il viaggio. Vedo che anche il modo di vestire passa dall’abito unisex, il shalwar qamise – pantaloni larghissimi e camiciotto della stessa stoffa che scende fin sotto le ginocchia -, ai blue-jeans, almeno per gli uomini. Accanto a donne velatissime (se ne vedono poche perché costrette a rimanere in casa), ne scorgo alcune che addirittura guidano la macchina (anche queste sono poche). Ma l’inquietudine che travaglia l’Islam di oggi è molto più profonda. È la tensione tra uno stato moderno – che esige, ad esempio, interessi bancari, educazione laica, pianificazione familiare -, e un sistema islamico che rifiuta questi e altri fattori determinanti per una società che vuole inserirsi in un mondo in via di globalizzazione. Analoghe tensioni si avvertono nel sistema giuridico: accanto alla Corte di stato rimane, quale istanza ultima, il tribunale religioso, composto da teologi islamici che applicano la legge coranica. La compattezza interna dà segni di cedimento, lasciando intravedere una crescente crisi. Il venerdì gli uomini convergono alla moschea per la preghiera, ma non sono più numerosi come una volta. I partiti islamici, potenti e onnipresenti, alle elezioni raggiungono soltanto il 2 per cento. Povertà, analfabetismo, corruzione, latifondismo (i membri del governo continuano ad essere chiamati feudal lord, signori feudali) rimangono una piaga endemica. Una minoranza perseguitata? La mia prima visita a Karachi è all’arcivescovo, Simeon Pereira. Nessuna anticamera, nessuna formalità. Mi accoglie con calore, con il triplice abbraccio pakistano. Una persona amabilissima. Era preoccupato per le mie difficoltà con il visto e si mostra felice di sapere che tutto si è risolto bene. Di poche parole, mi illustra in maniera stringata ed esauriente la situazione della Chiesa pakistana. Nei primi anni di vita del Pakistan, la comunità cristiana si sentiva sicura e libera. Il fondatore della nazione, Mohammad Ali Jinnah, fin dall’inizio sosteneva che tutte le persone del nuovo stato, a qualunque religione appartenessero, avrebbero potuto professare e diffondere la propria religione. La striscia bianca sulla bandiera verde nazionale sta appunto ad indicare l’esistenza di una minoranza non islamica. La Chiesa cattolica, che rappresentava appena l’1,5 per cento della popolazione, ha così potuto avere un’influenza molto al di là delle dimensioni numeriche. Il suo contributo nei campi dell’educazione e della sanità e nel servizio dei poveri è stato determinante. Tuttavia, a partire dal regime del generale Zia-ul-Haq che ha governato dal 1977 al 1988, si è avvertito un deciso cambiamento di rotta. Mantenuto al potere dagli Stati Uniti per respingere le forze sovietiche in Afghanistan, il nuovo capo di stato incoraggiava la crescita di gruppi militanti estremisti ben armati, diventati sempre più forti. “Si è sviluppata nel paese un’atmosfera di intolleranza religiosa, anche con sentimenti anti- cristiani – ha spiegato il vescovo Pereira al papa -. Nonostante la maggioranza dei musulmani non sia fanatica, i gruppi islamici hanno la capacità, se necessario, di muovere le masse e in tal modo arrivano a costituire una minaccia per il governo”. Ricorda in proposito l’approvazione della legge sulla bestemmia, l’introduzione di un elettorato separato per non-musulmani, il tentativo di introdurre ulteriori leggi islamiche. “Siamo liberi di professare la nostra fede anche in pubbliche manifestazioni, ma un musulmano che cambia la sua religione è bandito dalla famiglia o addirittura ucciso”. Nel corso del viaggio incontro preti, religiose, religiosi. Anche con loro, immancabilmente, il discorso va diritto al rapporto con l’Islam. Mi si spalanca davanti un mondo di sofferenza, di ingiustizie, di dolore… Ascolto storie di discriminazione, di rapporti difficili. In tanti avverto la paura fisica del fondamentalismo, della povertà e dell’emarginazione dei cristiani. Difficilmente i cristiani possono arrivare alle cariche superiori dell’esercito o della pubblica amministrazione, o del mondo economico e finanziario, anche perché appartengono alle classi più povere e hanno difficoltà a seguire gli studi superiori. Anche i cristiani, generalmente, nutrono una grande diffidenza verso i musulmani, e si educano a stare lontano da loro. Non siamo certo in clima di persecuzione. I cristiani possono liberamente professare la loro fede, organizzare e svolgere le loro riunioni, nominare i propri responsabili senza interferenza dall’esterno. Le scuole cristiane nazionalizzate nel 1972 sono state de-nazionalizzate dal precedente e dall’attuale governo, in piccoli blocchi e senza pubblicità, in modo da evitare reazioni delle sempre presenti fazioni estremistiche islamiche. In questo clima di pregiudizi reciproci il dialogo interreligioso èspesso considerato un’utopia. Mi sembrano quindi un miracolo i rapporti che il Movimento dei focolari ha saputo instaurare con tante personalità musulmane. Karachi Assieme ad alcuni focolarini e focolarine sono invitato da Nawaz Khan Marwat nella sua villa signorile a Karachi. Mi accoglie con il triplice abbraccio e con una straordinaria cordialità. Mi introduce in un grande salone con tanti divani. Come da prassi mi offre il suo biglietto da visita su cui leggo: “Avvocato della corte suprema del Pakistan, già ministro federale, vicesegretario generale del Congresso islamico mondiale, moderatore della Conferenza asiatica delle religioni e della pace, presidente della Conferenza mondiale delle religioni per la pace in Pakistan e presidente internazionale della medesima conferenza”. Ricorda il suo incontro con Chiara Lubich come uno dei grandi eventi della sua vita. Questa sera ha invitato a casa sua una quindicina di personalità musulmane del mondo politico pakistano, perché vuole che faccia conoscere loro i Focolari. Racconto la storia del movimento, soprattutto dei dialoghi avviati con le grandi religioni, dell’unità, della fratellanza universale. A mano a mano che vado avanti colgo un interesse sempre maggiore. I volti scuri e severi di consoli e parlamentari, incorniciati da barbe folte, si aprono gradatamente al sorriso. Alla fine i divani solenni che circondano la sala si animano e nonostante il protocollo si avverte una gioia che pervade tutti. Si alzano uno dopo l’altro e comunicano il loro modo di vedere il rapporto tra mondo islamico e mondo occidentale. La realtà, vista con i loro occhi, assume tutta un’altra prospet- tiva da quella con cui la guardiamo noi in occidente. Mi accorgo di quanto sia superficiale la conoscenza reciproca. Mi parlano della strage di musulmani che anche oggi c’è stata in India, delle incomprensioni di cui si sentono vittime… Non sono recriminazioni, ma confidenze sincere in un clima di amicizia e di ascolto. Ricevo l’invito a parlare all’università musulmana e ad incontrare altri gruppi… Io stesso, attraverso questi contatti, mi rendo maggiormente conto della “tattica” adottata dai focolarini che mi accompagnano nei vari incontri (dovrei precisare: focolarini e focolarine, perché queste, raccolte nei coloratissimi abiti tradizionali, sono fra le poche donne ammesse al dialogo ed è loro concesso di invitare con loro anche donne musulmane). Puntano a creare rapporti di amicizia, di sincero interesse, di rispetto, di comunione di vita. Ne ho la conferma a Rawalpindi dove mi attendono ulteriore incontri con gli amici musulmani. Rawalpindi Attique Ur Rehman e Gulzar Ahmed, al pari di Marwad, hanno pensato di farmi conoscere gli amici musulmani di Rawalpindi. Attique mi racconta di quando ha partecipato all’incontro per gli amici musulmani organizzato a Roma dal movimento: “Chiara è venuta a parlarci. Mi ha toccato soprattutto la consegna che ci ha lasciato: “Dare tutto”. Anche nel Corano ho letto: “Dare ai bisognosi”. Così, tornando a casa, ho cercato con mia moglie le cose che avevamo in più. Abbiamo cominciato di scarpe di mia moglie, nuovissime, altrettante le mie, vestiti nostri e dei bambini, giocattoli… Abbiamo dato tutto ai poveri del quartiere, e ci siamo sentiti liberi e più felici”. Attique mi presenta la moglie, Miriam, una giovane medico che si occupa di disabili. Oltre al lavoro in ospedale, dedica parte del suo tempo a visitare i bambini poveri dei villaggi. Anche lei ha da raccontarmi qualche esperienza frutto del suo rapporto con il focolare: “Ho cominciato a leggere la Parola di vita e mi è nato in cuore il desiderio di conoscere anche quelle precedenti. Le ho trovate su Internet. Mi ha colpito “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Mi sono improvvisamente ricordata di una mia vicina di casa con la quale da tre anni, dopo una grande offesa ricevuta, avevo rotto ogni rapporto. Pensavo che non le avrei più parlato per tutta la vita. “Ama il prossimo tuo”. Sentivo dentro la spinta a fare il primo passo, ma era difficile. Finalmente ho trovato la forza di suonare alla sua porta. Abbiamo ricordato il passato, le cose belle vissute insieme e ci siamo riunite un’altra volta”. Gulzar mi spiega come avviene in concreto il dialogo tra i cristiani e i musulmani amici dei Focolari. Non si affrontano tematiche dottrinali. Si punta piuttosto alla comunione di vita, soprattutto alla comunione delle esperienze della Parola. Ogni mese i musulmani scelgono una frase del Corano simile a quella che vivono i cristiani. “Da quando anche noi musulmani – mi spiega -, riceviamo il commento alla Parola di vita con i riferimenti al nostro libro sacro, porto questo foglietto in tasca e ogni mattina ne leggo un pezzo da vivere durante la giornata. Mi pare che così il Corano diventi vivo in me, parte di me”. Giunge l’incontro. Posso parlare molto liberamente della nostra esperienza cristiana perché vengo da lontano, sono professore di una università pontificia… e soprattutto sono del Movimento dei focolari! Tutto viene accolto con interesse e gioia. In altri ambienti sarebbe impossibile. Quando ho terminato, un signore che lavora alle poste, serissimo durante tutta la mia conversazione, cambia improvvisamente volto e parla con entusiasmo sorprendente, ricordando che anche il Corano invita all’amore e all’attenzione verso l’altro e quindi cristiani e musulmani possiamo veramente essere uniti. Il generale Mohammed Safdar, fino a due mesi fa governatore del Punjab, altissima personalità nel paese, seconda solo forse al primo ministro, prende la parola per confermare: “Sì, aiutarci gli uni gli altri”. Anche lui, al pari degli altri politici incontrati a Karachi, esprime il rammarico nel costatare l’ostilità con cui l’occidente guarda all’Islam, “nonostante che in occidente le persone siano tutte istruite e aperte, a differenza di noi qui in Pakistan che abbiamo il 70 per cento di analfabeti e molti ambienti chiusi. Bisogna tener conto – continua – che l’Islam è nato 600 anni dopo il cristianesimo e quindi sta vivendo quello che il cristianesimo ha vissuto nel medioevo. Non ha ancora sviluppato il senso critico delle propria storia e delle proprie Scritture. Da parte di cristiani mi aspetterei maggiore comprensione e pazienza”. Quindi cita Gandhi, che insegnava come le religioni sono altrettante vie che conducono all’unico Dio. Si dice contento di aver potuto finalmente conoscere il movimento. Infine chiede quanti siano i musulmani che a Rawalpindi vivono in maniera così profonda il dialogo della comunione. Attique risponde indicando il piccolo gruppo presente. E lui: “Non importa il numero, ma la qualità dell’impegno”. Quando, dopo quindici giorni, lascio il Pakistan, mi rimangono negli occhi i volti di questo pugno di uomini decisi a camminare insieme in un dialogo sincero, profezia di un mondo di pace. E sento riecheggiare le parole di Nasim Khalid, capo dell’ufficio protocollo del parlamento: “Sì, qui abbiamo ha tanta ricchezza di storia, di tradizione, ma manca la ricchezza più importante, quella dell’amore. È questa che ora dobbiamo portare in Pakistan”.

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