Nella stanza del tu

Come venir fuori da una situazione incresciosa dovuta a circostanze esterne o psicofisiche? Un suggerimento è sforzarsi di dimenticare sé stessi con i propri problemi per aprirsi alle necessità altrui. Occorre, per dirla con un’immagine, trasferirsi dalla stanza dell’io nella stanza del tu, ovvero del prossimo: operazione che può richiedere uno strappo anche violento alle proprie resistenze. Ma ne vale la pena, considerato ciò che si riceve. Lo diceva già l’autore del quarto Vangelo: Siamo passati dalla morte alla vita perché abbiamo amato i fratelli. Le testimonianze che seguono ne sono una conferma. Eccezionali questi ragazzi! A chi lo conosce adesso, col suo entusiasmo e con la sua voglia di spendersi per gli altri, difficilmente verrebbe in mente il ragazzo che solo quattro anni fa sprecava gran parte del suo tempo per le vie di Casoria, grosso comune cresciuto a ridosso di Napoli. Ecco come si descrive a quell’epoca Vincenzo, 25 anni: Ero uno pieno di sé, egoista al cento per cento; oltre al calcio (giocavo in una squadra professionale), alla moto e alle ragazze, non avevo altri interessi. Inutile dire che la Chiesa per me non significava nulla, e anzi prendevo in giro mio fratello che frequentava la parrocchia. Ma a sconvolgere il suo tran tran, sopraggiunse la perdita dell’amico più caro in seguito ad un incidente stradale: Sperimentai tutta la mia impotenza davanti alla morte, e da allora maturò in me il bisogno di qualcuno che non venisse mai meno. Non so come, le mie labbra pronunciarono un nome: Dio. La prima volta in cui mise piede in parrocchia e si aprì con don Lucio, si sentì dire parole insolite. Su di me Dio aveva di certo un progetto, un progetto d’amore: andai via felice e incredulo, come per una rivelazione. In Vincenzo, come risposta, nacque l’esigenza di mettersi a disposizione degli altri. Fu così che accettò l’invito ad occuparsi di un gruppetto di ragazzi della parrocchia, impegnandoli in qualche attività sportiva. Erano i Ragazzi per l’unità dei Focolari, e frequentandoli, scoprivo da loro che in ognuno potevo incontrare Gesù. Imparavo così il rispetto del prossimo, io che nel calcio badavo solo a vincere, a sopraffare l’avversario. Com’era prevedibile, incontravo non poche difficoltà. Ma avevo accettato la sfida e non m’importava di chi poteva ritenermi matto, della fatica, del tempo che non era più solo mio…. L’occasione di un corso di formazione per animatori giovanili gli aprì una realtà entusiasmante, diffusa a livello planetario, che finì di farmi conquistare il cuore da quei ragazzi. E convinse Vincenzo a ridurre i suoi impegni sportivi: Volevo dedicare più tempo a ciò che stava diventando più importante per me: quell’ideale dell’unità che mi appariva il rimedio anche ai problemi sociali di Casoria, dove troppi giovani non sanno per cosa vivere, alla mercé di false illusioni e non di rado facile esca della camorra. Decise perciò, assieme ad altri amici con le stesse sue esigenze, che in quel difficile contesto valeva la pena puntare sul capitale rappresentato dalle nuove generazioni. Ma come avvicinarle? Occorreva creare un punto d’aggregazione per mostrare loro un modo diverso di stare insieme. Di qui l’idea di organizzare un torneo di calcetto un po’ speciale, con regole impresse sulle varie facce di un dado da lanciare prima di ogni partita, che esprimono lo spirito dell’amore reciproco. In un mondo come quello dello sport, non di rado sconvolto da episodi di violenza, quest’esperienza controcorrente, giunta ormai al secondo anno, non lascia indifferenti. C’è chi viene ad assistere alle nostre partite, attirato soprattutto dallo spirito che regna nel campo; o chi ci confida di aver scoperto, non tanto dal nostro parlare ma dall’esempio, che esistono altri valori per cui merita vivere, e che un mondo più fraterno è possibile. Ma l’esperienza non si ferma all’aspetto sportivo. Col ricavato dal torneo gli amici di Casoria aiutano un sacerdote che opera in una diocesi del Benin. Inoltre, sensibilizzati ai problemi del territorio, ve ne sono di quelli che tutte le domeniche vanno a trovare gli anziani poveri di un ospizio locale. Anche se per me e gli altri sei animatori non è semplice gestire un’ottantina di giovani giocatori cui si aggiunge un’altra trentina con gli stessi ideali, è un impegno che portiamo avanti per Dio. E la sua risposta non manca mai: penso anche agli aiuti economici che ci hanno permesso di metter su una nostra sede e di creare un’associazione denominata Lavori in corso. Insomma – conclude Vincenzo; e gli viene proprio dal cuore – è più quello che si riceve di quello che si dona. Un aiuto a chi doveva aiutare A causa della depressione, passavo intere giornate a letto. In quella inattività, io che con Gino ero abituata a donarmi nel nostro quartiere (facciamo parte entrambi di Famiglie Nuove dei Focolari), chiedevo a Dio di non lasciarmi inaridire e cercavo occasioni per continuare ad amare. A rievocare quel periodo difficile è Margherita Magliuolo, abitante del Vomero Vecchio, il nucleo più antico di questo quartiere collinare, cuore commerciale e residenziale di Napoli. E Dio – continua a raccontare – mi prese in parola: fu quando venne ad aiutarmi nei servizi di casa Gabriela, una ragazza rumena che ben presto però accusò dei malesseri persistenti. Con la sensibilità acuita dal mio stato di salute, intuii in lei qualche problema a livello psichico. Visitata infatti da un medico amico, la ragazza risultò essere affetta da una forma di schizofrenia. A questo punto Gino ed io le prospettammo, per il suo bene, di ritornare nel proprio Paese. Siccome però lei in un primo momento volle tener duro, per alleggerirle i servizi, anche se non stavo bene, cominciai a darle una mano. Soltanto dopo un ulteriore peggioramento, Gabriela si lasciò convincere a fare ritorno in Romania, non senza un aiuto economico da parte dei Magliuolo. Si può immaginare la sua sospensione davanti ad un futuro incerto e difficile sul versante della salute; ma anche la gratitudine per aver trovato, in un Paese straniero, una insperata solidarietà. A sostituirla presso la famiglia di Gino e Margherita subentrò Marta, una sua cugina immigrata a Napoli. Ma anche di lei, ben presto, venne alla luce una situazione particolare. Conviveva – spiega Gino – con un uomo divorziato, padre di tre figli; per di più era arrivata dalla Romania la bambina undicenne di lei. Si arrangiavano tutti e tre in un’unica stanza, in una zona degradata di Napoli. Quando lui, ubriaco, la picchiava, lei era costretta a rifugiarsi da noi. Preoccupati soprattutto per la figlia, una creatura eccezionale sotto l’aspetto spirituale, al quarto episodio del genere Margherita e io decidemmo di accoglierle stabilmente a casa nostra, nonostante i prevedibili disagi. E pensare – riprende la parola la moglie – che tutto era iniziato perché avevo bisogno di un aiuto! Fra l’altro nella nostra cerchia non tutti approvavano quel nostro darci da fare e ci consideravano degli irresponsabili. Ma quelle creature erano state così svantaggiate nella vita che meritavano di essere aiutate. Per alcuni mesi, avemmo fastidi da quell’uomo: telefonate nel cuore della notte, prima che, diffidato dalla polizia, smettesse di importunarci. In compenso, ci fu piena collaborazione da parte dei nostri figli: rinunciavano perfino a invitare i loro amici a casa per lasciar dormire ad un’ora ragionevole la bambina nel soggiorno dove avevamo ricavato un posto per lei. Nella confidenza che s’era ormai stabilita fra noi – prosegue Gino – Marta accennò alla sua storia travagliata: senza genitori e con un susseguirsi di eventi dolorosi, una volta venuta a Napoli… Ad un certo punto, immaginando forse un secondo fine, ci affrontò: Ma chi ve lo fa fare di darvi tanta pena per noi? Cosa vi aspettate?. Le risposi che rientrava nei nostri doveri di cristiani, che Dio amava immensamente sia lei che la figlia. Quando poi la ragazza, non praticante, espresse il desiderio di farsi cristiana e di aprire la sua anima con un prete, misi in chiaro una condizione necessaria: la rinuncia a quell’uomo e ad altri rapporti fuori del matrimonio. Lei accettò e tenne fede scrupolosamente a questa promessa fino a quando si fidanzò con un nostro amico vedovo, suo attuale consorte. Con Marta, io che ho solo figli maschi provai l’emozione di accompagnare all’altare una figlia. Altro momento forte fu quando, finita la celebrazione, lei sostò a lungo davanti a Gesù Eucaristia per ringraziarlo di averlo conosciuto, sia pure tardivamente. Ciò che ha sofferto, e anche il bene ricevuto, hanno reso Marta molto sensibile ai bisogni del prossimo: difatti invia periodicamente nel suo Paese vestiario e altri generi che scarseggiano, per aiutare i bambini poveri di un istituto. Ora anche lei fa parte di Famiglie Nuove e la figlia, in occasione della cresima, ha scelto come padrino uno dei nostri figli.

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