Nella cucina di Betsabea

L’idiota di Frampol si presenta: Sono Gimpel l’idiota, ma non credo d’esser stupido. Anzi. Una volta il rabbino gli aveva dato un consiglio: È scritto, meglio essere stupidi per tutta la vita che malvagi per un’ora soltanto. Tu non sei uno sciocco. Gli sciocchi sono loro. Poiché colui che costringe il suo simile a vergognarsi, perde il Paradiso . E quel consiglio Gimpel se l’era legato al dito. Con tanto disarmante candore, il grandissimo scrittore polacco- americano Isaac Singer, di cui quest’anno si celebra il centenario della nascita, ci presenta uno dei suoi personaggi più celebri: Gimpel. Che è considerato idiota dai suoi compaesani dello shtetl di Frampol, il povero villaggio di ebrei dell’Europa Occidentale. Il tema della sciocco-saggio è molto caro alla tradizione ebraica. Basta pensare che la parola sciocco in yiddish (la lingua degli ebrei dell’Europa Orientale in cui scrive Singer) si dice chochem, che deriva dall’ebraico chachem, che significa saggio. Gimpel è una figura d’una purezza interiore tenerissima, quasi commuovente. È un credulone, non perché stupido, ma perché è convinto che: tutto è possibile, come sta scritto nella saggezza dei padri. La gente di Frampol, che si reputa furba e saggia, fin da bambino lo deride, si beffa di lui. Lui li lascia fare, si fa infinocchiare. Da adulto, per burlarsi di lui, lo convincono addirittura a sposare la donna più disonesta del paese; la quale gli farà credere di amarlo, ma si rifiuterà a lui e metterà al mondo sei figli da altri uomini. Ma Gimpel non cova rancore nel suo cuore, non ne è capace. Ama con compassione la moglie adultera e bugiarda, ama i figli non suoi, aiuta chi lo inganna. Che cosa ci si può fare? È stato Dio a darci le spalle e anche i fardelli. La sua capacità di sopportazione non è stupidità, ma deriva dalla comprensione realistica di come è fatto l’uomo. Tutti ridono di lui. Ciò nonostante, decisi che avrei sempre creduto a quanto mi sarebbe stato detto. A che serve non credere? Oggi, non presti fede a tua moglie; domani non vuoi credere a Dio stesso. La tentazione però s’insinua anche nel suo cuore puro. Sono stanco di fare il somaro. C’è un limite anche all’idiozia d’un idiota come Gimpel. Lo Spirito del Male gli si presenta e lo incita a vendicarsi. Siccome era panettiere, avrebbe potuto rifarsi delle beffe subite impastando la farina, anziché con l’acqua, con la sua urina raccolta in un secchio durante il giorno. Gimpel rimane perplesso: E il giudizio di Dio?, chiede al Maligno. Nel mondo di là non c’è Dio, gli risponde lo spirito di Menzogna, ma solo un profondo pantano. Gimpel cede. Però subito dopo si riprende: sotterra il pane che aveva già cotto e, per riparare a quel momento di cedimento, diventa mendicante e viaggia per i vari paesi raccontando storie. In questo modo si prepara alla morte: Quando il momento verrà, me ne andrò con gioia. Qualsiasi cosa possa esservi laggiù, sarà reale, senza complicazioni, senza prese in giro, senza inganni. Dio sia lodato: laggiù non è possibile turlupinare neppure Gimpel. Anche Singer, come Gimpel, ha amato l’umanità facendo la cosa che gli riusciva più naturale: raccontando storie. Ha raccontato il mondo perduto degli shtetl, i poveri villaggi delle pianure est-europee dove si sono installate nei secoli le piccole comunità degli ebrei orientali di lingua yiddish. Ha cantato i posti dove questi ebrei hanno vissuto per lungo tempo alimentandosi all’immenso patrimonio spirituale delle varie correnti del chassidismo. Finché tutto è stato tragicamente cancellato dalla follia nazista. A chi gli chiedeva perché scrivesse in yiddish, Singer rispondeva: Io scrivo le storie di un popolo di morti, perciò devo usare una lingua morente… Tuttavia – continuava – credo che nulla mai muoia veramente. I suoi scritti hanno contribuito a far vivere questo mondo perduto. Come gli shtetl che descrivono, ogni loro pagina brulica di vita e di mistero, di interventi dell’Altissimo, di scherzi di diavoli e folletti, di poveri onesti contadini e di gente di malaffare, di capre e di mucche, di dotto rabbinismo e di saggezza popolare, di pietà e di sensualità. Sembrano, i suoi racconti, altrettanti quadri di Chagal, che come lui era un ebreo orientale. Anzi, egli è stato per la letteratura un po’ ciò che Chagal è stato per la pittura. Singer nacque in Polonia, poi visse a lungo in America. Ma il suo mondo rimase sempre quello della giovinezza, segnata dalla profonda religiosità del padre rabbino e della madre Betsabea, una casta figlia di ebrei. Un mondo in cui tutto era antico, tutto era tradizione che acquistava senso solamente alla luce della stretta osservanza della Legge di Dio. Io venni educato sulla base di tre lingue morte – racconta Singer – l’ebraico, l’aramaico e lo yiddish e di una cultura che si sviluppò a Babilonia: il Talmud. La scuola dove io studiavo era il locale dove il maestro mangiava e dormiva e sua moglie faceva cucina. Là io non studiavo l’aritmetica, la geometria o la storia, ma le leggi che stabiliscono come ci si debba comportare con un uovo deposto durante lo Shabbat e i sacrifici celebrati in un tempio distrutto duemila anni fa. Quando inizia a scrivere cerca là le sue radici. Sa che solo di quello può narrare. I suoi straordinari racconti, sempre in bilico fra fantasia e profonde penetrazioni nella realtà umana, nascono dai ricordi accumulati nella cucina di sua madre Bestsabea. Lui era là, bambino, che pendeva dalle sue labbra mentre lei, affettando cipolle, raccontava favolose storie e leggende. Lì nella cucina, fra uova e cavoli che friggevano, patate che bollivano, suo padre rabbino riceveva ogni sorta di gente, spiegava passi della Torà, e componeva liti che regolarmente scoppiavano fra i vivaci abitanti dello shtetl. Lì, nella cucina di mamma Bestsabea, si depositavano nella mente di Isaac i germi dei suoi futuri capolavori. Che, in sintonia con l’ambiente da cui trassero ispirazione, iniziano con frasi semplici: Raccontava nonna Temerl…, narrava Zalman il vetraio…. Singer per lunghi anni è stato un personaggio ai margini del gran mondo della letteratura. All’assegnazione del Premio Nobel, fu lui il primo ad essere sorpreso. Singer non fu un ebreo modello. Pur dichiarandosi credente, ebbe molte tentazioni panteistiche o nichiliste, di cui tante sue opere recano tracce potenti. Il romanzo La famiglia Moskat si conclude con la frase drammatica: La morte è il Messia. Ma all’inizio il protagonista, il vecchio patriarca Meshulam, è presentato così: Alla mia destra è Michele. Alla mia sinistra è Raffaele. Davanti a me è Uriel. Dietro di me è Gabriele. E sul mio capo la divina presenza di Dio. La sua opera rimarrà sempre affascinante e universale per la sorprendente vitalità e passione con cui ha narrato il suo popolo, fatto di contadini, macellai, sarte, dottori, rabbini e cuoche. Un popolo con i suoi santi e con i suoi impostori. Ma anche con le sue anime pure, come Gimpel. ISAAC BASHEVIS SINGER (Radzymin, Polonia 1904 – Miami 1991), figlio di un rabbino chassidico e di una casta figlia di ebrei di nome Betsabea, è da considerarsi tra i maggiori narratori non solo del Novecento, ma di tutti i tempi. Nel 1978 ha ricevuto il Premio Nobel per la letteratura. Il suo romanzo La famiglia Moskat aveva ricevuto nel 1968 il Premio Bancarella. Di grande spessore le sue raccolte di racconti tra cui Gimpel l’idiota (1957), le fiabe per bambini Zlateh la capra (1966), Quando Schlemiel andò a Varsavia (1968), oltre ai due volumi Alla corte di mio padre (2000), centrati sulla figura paterna e sull’istituzione del tribunale rabbinico. Dal suo racconto Yentl è stato tratto il celebre film musicale con Barbara Streisand.

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