Nel sangue dei papaveri

90 anni or sono moriva nel fiore dle suo genio il poeta contadino armeno Daniel Varujan, tra le prime vittime del genocidio del suo popolo.
vARUJAN
Era maggio, splendore di natura anatolica. Nessuna nube in cielo a minacciare uno di quei temporali passeggeri? Nessuna folata improvvisa a far rabbrividire la superficie dei laghi? Niente che facesse presagire l’orrore imminente, come accade talvolta quando stanno per aprirsi le cataratte del male? No: le stesse venerande chiese ottagonali, cristalli di fede, come pure i monasteri scrigni d’arte e di santità (quanti ahimè poi distrutti!), dovettero sembrare eterni a chi allora, candidamente, aveva sperato nel prevalere della ragione, dell’umanità, della pacifica convivenza. E poi la vita nei campi seguiva il suo ciclo dai tempi dei tempi…

 

Ma quella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915 a Costantinopoli, notte per tutto un popolo e vergogna d’Europa, tolse ogni illusione. Tu, Daniel, fosti strappato alla tua famiglia, alla giovane moglie e ai due teneri figli, un terzo in arrivo. Imprigionato con altri, l’élite armena della capitale dell’Impero Ottomano. Facesti giusto in tempo a cacciare in tasca, con poche altre cose, il manoscritto del poema a cui stavi lavorando, Il canto del pane: vero inno gioioso alla vita e al lavoro dell’uomo, legato alla sua terra da una misteriosa sacralità. E via, verso l’ignoto.

 

Stupisce come riuscissi, anche in uno squallido carcere e nelle angosciose trasferte, a scrivere qualche verso. Non occorre calma alla poesia, serenità contemplativa?… Ma no: l’apparente idillio dei campi da te cantato era già bagnato dal sangue dei papaveri, segnato dalle ferite inferte dalla falce…Violenza, certo, dell’uomo verso la terra, la natura: ma per la vita, perché dal grano l’uomo riceva il suo nutrimento. Dalla morte una rinascita, come sempre. Così anche allora, nell’incertezza di ogni cosa, urgeva l’ispirazione, la mente e il cuore immersi in immagini-profezia per te e il tuo popolo… Era, nell’imminenza della prova suprema, il messaggio in bottiglia a noi posteri di un’anima approdata dopo il travaglio ad una più convinta fede.

 

Chissà come andò, e quali furono gli ultimi tuoi moti e pensieri! So che giungesti alla tappa finale insieme ai tuoi compagni, uno dei quali poeta come te, forse anche lui con l’anima gremita di versi che mai sarebbero sbocciati su questa terra. Quel lontano giorno d’agosto del 1915 ti saziasti la vista dei campi denudati ormai delle messi, ma ancora con qualche papavero, delle greggi sacrificali e dei buoi dagli occhi mansueti, lontani mille mondi dalla violenza assassina (i loro muggiti, uniche lamentazioni per quel martirio). Cadesti falciato con gli altri, e il tuo sangue si mescolò a quello dei papaveri purpurei. L’avresti mai pensata una così totale identificazione con quanto avevi sentito e scritto? Fra le cose di cui fosti derubato, ti trovarono nelle tasche quel manoscritto, finito poi negli archivi polverosi di qualche funzionario della censura turca, ignaro del tesoro che custodiva.

 

Dopo la guerra, furono necessarie le più avventurose ricerche e una fortuna in denaro per riscattare quelle pagine gualcite. Vennero pubblicate tali e quali nel 1921, a Costantinopoli. Oggi anche in italiano: così anche chi non ti conosceva, risentendo quell’inno della terra e dell’uomo concordi, coglie il senso liturgico delle cose divenute vere perché dette, salvate dalla poesia. Veniva alla luce il tuo capolavoro, come altro tuo figlio: non di carne e di sangue come quello che non avevi potuto vedere. Ma anch’esso, a suo modo, perfetto. Reso tale dal tuo sacrificio, Daniel.

 

DANIEL VARUJAN nacque a Perknik, villaggio dell’Anatolia, il 20 aprile 1884. Nel 1886 si recò con la madre a Costantinopoli alla ricerca del padre, scomparso durante le epurazioni volute dal sultano Abdul Hamid: un dramma da cui la sua sensibilità rimase segnata per sempre. Dotato di ingegno eccezionale, dopo i primi studi nella metropoli turca, proseguì la sua educazione a Venezia, dove pubblicò la sua prima raccolta di poesie, Fremiti (1906), e successivamente a Gand. Influenzato dalla crisi religiosa europea di fine Ottocento, attraversò una profonda crisi esistenziale, durante la quale si rifugiò nei miti indoeuropei precristiani della sua tradizione. Di nuovo in Turchia, si sposò e trovò lavoro come precettore nel paese natale. La sua fama di letterato e poeta crebbe dopo la pubblicazione de Il cuore della stirpe (1909) e Canti pagani (1913). Nel 1912 si trasferì a Costantinopoli, dove ottenne un posto di direttore di scuola e si dedicò con tutte le sue energie alla rinascita della cultura e della lingua armena, diventando l’anima del movimento che faceva capo alla rivista Navasart. È di quel periodo il suo ritorno alla fede, purificata e rafforzata dopo il travaglio spirituale. Tre anni dopo, arrestato con altri scrittori, intellettuali e uomini politici armeni,Varujan venne deportato verso l’interno ed ucciso il 28 agosto 1915, nel pieno della sua splendida maturità.

 

NOTTE SULL’AIA

Daniel Varujan, di cui ogni bambino armeno conosce a memoria qualche poesia, è ancora poco conosciuto in Italia, malgrado la traduzione de Il canto del pane uscita nel 1992 presso l’editore milanese Guerini, a cura di Antonia Arslan, che ha anche curato la più recente raccolta Mari di grano (Paoline, 1995), comprendente Il canto del pane ed altre liriche. Tra i grandi rappresentanti del simbolismo europeo,Varujan riuscì a fondere i diversi orizzonti poetici entro cui si formò (la nativa dimensione orientale e quella occidentale) in una sintesi originalissima. Vi si esprimono con vigore e plasticità di immagini – specie nei canti dopo la conversione – sensualità e mistica, corpo e anima, fisicità pagana e spirito cristiano. Nella poesia qui riportata, tratta dal Canto del pane, Varujan – commenta Antonia Arslan – arriva a una sconcertante visione mistica, approdo di un itinerario della mente che, percorrendo le tappe della vita più elementare, quella del contadino, ha ridato ordine a un mondo sconvolto e, nominandolo, lo ha raccontato in poesia.

 

Dolce notte estiva. La testa abbandonata sull’aratro/ l’anima sacra del contadino riposa sull’aia./ Nuota il grande Silenzio tra le stelle divenute un mare./ L’infinito con diecimila occhi ammiccanti mi chiama. Cantano di lontano i grilli. Nelle acque del lago/ questa notte si celebrano le nozze segrete delle naiadi./ La brezza agitando il salice sulla sponda del ruscello/ risveglia i canti su accordi sconosciuti. Nel profumo del serpillo, disteso in cima a un covone/ io lascio che ogni raggio tocchi il mio cuore,/ e m’inebrio del vino della grande botte dell’Infinito/ dove un passo sconosciuto schiaccia le stelle cadenti. È squisito per il mio spirito tuffarsi nell’onda luminosa di azzurro, /naufragare – se è necessario – nei fuochi celesti;/ conoscere nuove stelle, l’antica patria perduta,/ da dove la mia anima caduta piange ancora la nostalgia del cielo./ È dolce per me sollevarmi sulle ali del silenzio,/ ascoltare soltanto il respiro imperturbabile dello Spazio,/ finché i miei occhi si chiudano in un sonno magico,/ e sotto le mie palpebre rimanga l’Infinito con le sue stelle.

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