Sì, è vero, questa guerra sta provocando alcuni “effetti collaterali” (orribile termine che indica le vittime, civili e militari, ostaggi compresi) sulla popolazione, ma sembra che ad entrambi i contendenti la cosa non crei troppi problemi, vista la posta in gioco e i rischi che una cessazione delle ostilità aprirebbe.
Quindi Hamas e il Governo israeliano starebbero giocando a rimpiattino, e quello che sembra per loro più importante è comunque negare tutto e soprattutto dare sempre la colpa al nemico. Le indignate e patetiche accuse sulle colpe dell’avversario mi ricordano molto i famosi versetti-sberleffi di Gavroche, il personaggio de “I Miserabili” creato da Victor Hugo. “Se siamo brutti a Nanterre, la colpa è di Voltaire; se siamo sciocchi a Palaiseau, la colpa è di Rousseau”, canticchiava Gavroche. E, parafrasando, un Gavroche-palestinese di oggi potrebbe attualizzarle così: “Se siamo brutti ad Al Ram, la colpa è di Teheran; se siamo sciocchi a Khan Yunis, la colpa è di Hamas”.
Di chi sia la colpa e chi sia a raccontare più menzogne il repertorio è pressocché illimitato. È assolutamente impossibile dire qualsiasi cosa che dopo un’ora non ci sia un coro di smentite e di accuse: questo però soprattutto da parte israeliana, perché Hamas sembra aver scelto l’opposto: non contraddice. Sembra piuttosto affermare le sue “verità” senza degnarsi di controbattere le accuse.
Con tutta probabilità anche le verità di Hamas non sono “vere”. Ma l’atteggiamento non contraddittorio è a quanto pare vincente. E c’è ben altro nell’atteggiamento di Hamas. Come drammaticamente sottolinea sul Foglio del 26 luglio Giuliano Ferrara (anche se non condivido altre sue considerazioni) sta sempre più succedendo che: «In Israele e nella diaspora ebraica si levano voci che considerano lo stato degli ebrei (…) il guardiano di un campo di concentramento. Era questo, e in questo ha vinto la sua battaglia, il programma dichiarato di Sinwar», la mente dell’orribile pogrom antiebraico del 7 ottobre 2023, ucciso con un drone dalle Idf un anno dopo.
La crescita mondiale dell’antisemitismo, che tanto preoccupa molti ebrei di Israele e della diaspora ha tutta l’aria di non essere colpa di un qualcuno senza nome: potrebbe essere stata pianificata e voluta da Hamas, ma le continue menzogne del Governo israeliano (o il complotto che le ordisce) hanno funzionato come benzina sul fuoco. Netanyahu si dovrebbe chiedere quanto gli atteggiamenti suoi e del suo governo hanno contribuito a questa crescita.
E adesso? Non so se sia proprio così, ma mi intriga un passaggio dell’intervista de ilsussidiario.net, del 25 luglio, a Sherif El Sebaie, opinionista egiziano esperto di geopolitica del Medio Oriente, docente all’Università di Torino e pubblicamente riconosciuto dalla Regione Piemonte nel 2024 per il suo impegno nella Diplomazia culturale e nei rapporti Euro-Mediterranei.
L’intervistatore chiede a El Sebaie a proposito della mancata tregua su Gaza: «Perché questo balletto estenuante delle trattative se in realtà alle parti in causa va bene il conflitto?». Risponde: «Devono farlo davanti all’opinione pubblica internazionale, per il dramma che sta vivendo Gaza: Hamas non può dire che sta sacrificando volentieri la popolazione di Gaza, né Israele che sta facendo volentieri vittime civili, ma sotto sotto, entrambe hanno molto da guadagnare. Se Hamas riuscisse a far girare questa storia nella direzione del riconoscimento di uno Stato palestinese, giustificherebbe l’attacco del 7 ottobre. Se Israele riuscisse a ottenere la distruzione totale di Hamas, e forse anche l’occupazione a tempo indeterminato di Gaza e la sua ricostruzione sul modello trumpiano (oltre ad avere mano libera, ovviamente, in Cisgiordania), avrà aggiunto ulteriori risultati a quelli ottenuti con l’Iran e i suoi proxy».
Detto in altri termini, Hamas non può rilasciare tutti gli ostaggi e arrendersi, come chiede il governo israeliano, senza condannare se stesso al suicidio e la causa palestinese alla sua fine. E il governo Netanyahu non si può permettere la fine del conflitto senza dissolversi, nell’immediato, per numerosi motivi politici, e in un futuro non troppo lontano (alla fine del mandato di Trump?) per motivi giudiziari.