Negozi sempre aperti

La prima liberalizzazione realizzata dal Governo Monti annulla i limiti all’orario di apertura degli esercizi commerciali. Con conseguenze che non possono lasciare indifferenti
Negozi aperti
Mattinata di un giorno feriale, 27 ottobre 2011. L’intero quartiere di Ponte Milvio a Roma è interamente bloccato dal traffico e in preda al caos. Arrivano i rinforzi della polizia. Ma niente paura, non è scoppiata la rivoluzione: solo qualche rissa tra aspiranti clienti per l’effetto della pubblicità di una nota catena di negozi di elettronica. Prezzi sottocosto e un numero limitato di esemplari di i-Pad, televisori e altra merce di alta tecnologia. Sono le mosse dell’elementare strategia seguita nella contesa quotidiana per strappare e fidelizzare le grazie dei consumatori. Avviene così anche per i saponati e gli alimentari.

 

È il fenomeno che il politologo Barber ha descritto molto bene nel suo libro del 2010 Consumati: i grandi investimenti pubblicitari (stimati in 550 miliardi di dollari nel mondo nel 2009), destinati a rendere infantili gli acquirenti, si basano su caratteristica propria dell’economia contemporanea che deve insistere sulla creazione dei bisogni davanti a troppe merci per pochi consumatori. Nelle polemiche seguenti all’evento, finito nella cronaca nazionale, alcune voci dell’opposizione alla giunta Alemanno hanno criticato il danno subito dai cittadini suggerendo una soluzione “alternativa” per i casi futuri: spostare il lancio di queste iniziative nei giorni festivi, quando c’è meno traffico.

 

Basterebbe questo esempio per capire come la prima misura di liberalizzazione decisa dal governo Monti sia passata senza una dura opposizione, se non la comprensibile apprensione per i piccoli commercianti che non hanno le risorse per competere con la grande distribuzione organizzata. Confcommercio ha espresso la propria contrarietà con un manifesto che parla di «condizione insostenibile per le piccole imprese che saranno strette nella morsa tra la rinuncia al diritto al riposo e alla vita familiare da una parte, e la dolorosa rinuncia all’attività, dall’altra».

 

Superato ogni dibattito sui divieti, facilmente aggirati, sul lavoro domenicale e festivo, il decreto “Salva Italia” di Monti ha liberalizzato del tutto l’orario di apertura degli esercizi commerciali. Finalmente!, Esclamano coloro che magnificano la città-emblema “che non dorme mai”, New York. Qualcuno ricorderà il filmato in cui una donna americana di età avanzata suscitava la meraviglia compiaciuta di Bush junior raccontando dei suoi tre lavori, tra cui appunto la cassiera notturna di chissà quale bazar. Cominciarono gli immigrati coreani nella Grande mela a tenere sempre aperti i negozi, anche di notte e nei festivi, ma il mercato si è dimostrato in grado di creare spazi anche per i pezzi di quella middle class declinante che necessita di introiti straordinari per mantenersi a galla.

 

La libertà che si vuole salvaguardare ed estendere è teoricamente quella del consumatore, che può compare sempre, e dell’esercente, che può decidere quando tenere aperto senza vincoli e regolamenti. Centri studi molto attrezzati, come il Cermes della Bocconi di Milano, sono stati tra le fonti più citate per sostenere la svolta della liberalizzazione più spinta. Una ricerca del 2006 sosteneva una perdita stimata in 23 miliardi di euro a causa della rigidità degli orari dei negozi. E i sondaggi demoscopici sono ricchi di cifre sul gradimento dei consumatori liberi di poter comprare un paio di calzini a mezzanotte. In tempi di crisi, dove gli esercizi commerciali rischiano di chiudere per la mancanza di clienti anche durante i saldi, le previsioni del 2006 potrebbero essere sottoposte ad una verifica più stringente anche considerando i costi dell’ organizzazione del lavoro, con una turnazione che solo le grandi strutture possono sopportare senza ricorrere al nero e ad altri stratagemmi.

 

Si spiegano in tal modo le esternazioni molto positive sul provvedimento del governo Monti da parte di Cobolli Gigli, presidente di Federdistribuzione. Ma indicazioni ulteriori potrebbero arrivare dalle indagini non pilotate esistenti sulla gestione del personale nei grandi magazzini, sulle formule contrattuali adottate in un contesto dove è molto difficile ogni forma di rappresentanza, con qualche eccezione. Per restare sul territorio romano, in pieno solleone estivo, in una domenica di luglio 2001 oltre il 40 per cento degli addetti di una rete internazionale di bricolage hanno incrociato le braccia chiedendo il rispetto dei riposi e delle maggiorazioni per il lavoro festivo.  

 

Notizie poco diffuse, e destinate a scomparire considerando la facilità con cui può essere sostituto un lavoratore del settore, ma sufficienti per far cadere l’impostazione teorica che vuole ridurre tutta la questione ad una faccenda delegata al libero scambio (lavoro disponibile contro retribuzione possibile) tra adulti consenzienti. Un’impostazione che sorregge la logica dei primi provvedimenti amministrativi sul commercio nel 1998 fino all’ultimo contratto collettivo del commercio non firmato da tutte le sigle sindacali.   

 

La liberalizzazione degli orari dei negozi non potrà non condurre ad estendere l’offerta anche in altri settori, come le banche, le poste, gli uffici pubblici per i quali si riscontra una maggiore giustificazione pratica. Così, in maniera sempre più inesorabile, cambierà il ritmo del lavoro e del riposo collettivo con conseguenze radicali sulla vita delle comunità e delle famiglie. Non è certo solo una questione tecnica e l’afasia di molti su questo tema sembra dar ragione a quella tesi sulla mutazione profonda che Barber definisce la riduzione della libertà politica alla libertà di consumare. Traffico permettendo.

 

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