Negli Usa nessun sostegno agli assassini del carabiniere

La foto, diventata virale, di uno degli arrestati per l'omicidio del carabiniere Mario Cerciello Rega, scattata mentre era bendato durante un interrogatorio, non ha provocato l'indignazione dei media americani, perché per l'opinione pubblica statunitense i due giovani hanno tradito l’immagine del Paese, mentendo e uccidendo un uomo modello nel suo lavoro nelle forze dell’ordine e nella vita privata. Dalla nostra corrispondente da New York

La foto di Gabriel Christian Natale Hjorth, uno dei due americani accusati dell’omicidio del carabiniere Mario Cerciello Rega, seduto in caserma con le manette ai polsi e gli occhi bendati è stata pubblicata sui principali media statunitensi senza alcun commento di biasimo. Dalla Cnn, che ha letto le carte delle ordinanze, al Washington post, dal New York Post al Times, all’Associated Press che è l’agenzia di riferimento sul caso, nessuno ha gridato allo scandalo o alla violazione della dignità, anzi parecchi hanno limitato i commenti ad una questione di «procedure interne alle autorità», sottolineando che durante gli interrogatori i legali sono stati sempre presenti.

Tutti, poi, riportano le dichiarazioni dell’Arma dei carabinieri, le scuse e le indagini interne e qualcuno avanza già la certezza di trasferimento ad un’unità non operativa dell’autore della foto, condivisa dapprima in una chat interna e poi pubblicata sul Corriere della Sera. La segreteria di Stato Usa, interrogata sul fatto, preferisce non commentare per ragioni di privacy e lo stesso fanno le famiglie dei due indiziati, che affidano a comunicati ufficiali le loro scuse, le condoglianze, la loro vicinanza alla famiglia e agli amici della vittima. Confidano nella giustizia e si affidano al console statunitense e agli avvocati della difesa, nell’attesa di partire per l’Italia e visitare i ragazzi, che peraltro al momento dell’arresto non hanno espresso alcuna volontà di contattare le famiglie di origine.

Solo il padre di Finnegan Lee Elder, in una fugace apparizione su Cnn, si augura che il pubblico capisca che suo figlio «è un brav’uomo e non un violento». Intanto i giornali locali Usa, a partire dal San Francisco Chronicle, medium di riferimento dell’area di provenienza dei presunti assassini, ha cominciato a scavare nel passato dei due ragazzi e ha scoperto che Finnegan Lee Elder, accusato di aver inferto le 11 coltellate mortali, durante il suo percorso scolastico aveva picchiato un compagno della squadra di calcio della scuola e che a 16 anni aveva dato un pugno talmente violento ad un ragazzo in un parco da averlo mandato in ospedale con serie complicazioni celebrali. La famiglia del ragazzo colpito, oggi uno studente modello in una scuola dell’area, ha rifiutato commenti «vista la delicatezza del caso». L’attinenza a fatti, a dichiarazioni rilasciate o no è assoluta in tutti i website di quotidiani, magazine e tv locali.

Reazioni così contenute e strettamente limitate ai fatti, rispetto a quanto si legge sui media italiani, sono fortemente legate anche a una cultura dove l’immagine del Paese è centrale: i due giovani, infatti, non possono essere considerati americani modello perché violenti, consumatori di droghe, bugiardi (Finnegan ha dichiarato di aver colpito il carabiniere per autodifesa, ma il corpo non presenta segni di colluttazione e i due giovani si sono contraddetti sull’identificazione dei carabinieri).

Il loro agire, inoltre, ha macchiato le istituzioni che li hanno educati, il contesto familiare e la comunità dove vivono, il rispetto delle regole e delle leggi: tutti valori sacri nel contesto statunitense, dove comunque la radice puritana delle origini continua a restare vitale e riferimento indiscusso. A ciò si aggiunge una cultura della difesa dei diritti umani parecchio indebolita da un passato molto triste (le torture nel carcere di Guantanamo inflitte a presunti terroristi legati all’11 settembre non sono state del tutto archiviate nell’amministrazione giudiziaria e nella coscienza degli statunitensi) e di un presente ancora ferito soprattutto dalle reazioni violente e talvolta dichiaratamente razziste delle forze dell’ordine.

Le manifestazioni nelle città del Sud e del Midwest contro le violenze sugli afroamericani accendono settimanalmente gli animi dei quartieri di periferia, perché non è vero che «ogni vita conta allo stesso modo», come dichiara lo slogan di alcuni di questi movimenti.

Infine c’è Mario, la sua storia personale, il suo recente matrimonio, la sua generosità, il servizio a favore della comunità in una forza dell’ordine: Mario è il bravo ragazzo, il modello imitabile di cui gli Usa sono costantemente alla ricerca e in ammirazione, prova di quell’anima “pura e bambina” che il capitalismo sfrenato o la polarizzazione politica o le minacce guerrafondaie non hanno saputo cancellare dall’immaginario americano e dal cuore della gente. Ieri sera, durante una mostra all’Onu contro la tratta, anche tra i membri delle Ong si parlava di Mario, della sua vita, della moglie e del dolore della comunità che non meritava questa perdita. Nulla sui due giovani statunitensi.

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