Myanmar: quello che non doveva accadere

Colpo di stato militare in Myanmar. Aung San Su Kyi, la 75 enne leader di fatto del Paese e Nobel per la Pace 1991 è stata arrestata e trasferita con una trentina di sostenitori in un luogo sconosciuto. Non si preannuncia nulla di buono nei prossimi giorni e settimane
Aung San Suu Kyi, presidente di fatto, rapita dai militari (AP Photo/Markus Schreiber, File)

È dal 1984 che viaggio in Myanmar, un paese meraviglioso, affascinante, con gente speciale, ma anche una nazione (o meglio 135 nazioni, tante sono le etnie-popoli ufficialmente riconosciute dal governo centrale), oppressa da violenze, soprusi e sofferenze ormai da troppo tempo.

A marzo 2020, durante il mio ultimo viaggio, ho visto grosse Toyota, perfino qualche Mercedes e bellissimi pulmini, in giro, al posto delle vecchie carrette, segno che il paese, in questi ultimi 5 anni, dopo le elezioni del 2015, è cambiato parecchio. Investimenti, sviluppo, e tanti capitali stranieri in cerca di facili guadagni.

In un mio articolo per Cittanuova del 3 luglio scorso, ho raccontato, per esempio, quanto sia macchiata di sangue la giada di cui il Myanmar è grande esportatore. Non meno dei famosi blood diamonds della Sierra Leone. In questi ultimi anni c’è stata indubbiamente anche molta più partecipazione della gente comune alla vita civile e politica, e un certo contenimento del Tatmadaw (le forze armate del paese). Dico un certo contenimento, perchè in realtà sono loro che comandano indiscussi. Nonostante il dramma dei Rohingya, Aung San Su Kyi, leader di fatto del paese, è riuscita con grandi difficoltà a districarsi in mezzo all’intransigenza del Tatmadaw, che con la sanguinosa pulizia etnica portata avanti dalla forze armate con l’appoggio di una frangia nazionalista, ha fatto notizia in tutto il mondo.

Aung San Suu Kyi ed il suo partito, il Fronte nazionale democratico, che ha raccolto la voce di tutte le etnie del paese, hanno governato come hanno potuto negli ultimi 5 anni, con i fucili dei militari sul collo. Ma ha di nuovo stravinto le ultime elezioni di novembre 2020, conquitando 396 seggi su 476 del Parlamento bicamerale nazionale. Questo ha provocato però l’ira dell’opposizione: il partito filo-militare è riuscito ad ottenere soltanto 33 seggi.

Una sconfitta pesante che non è andata proprio giù ai militari, i quali insistono da mesi che ci sono state frodi nelle votazioni. Secondo i militari, 8,6 milioni di voti erano irregolari. Un’affermazione che non ha mai trovato nessun riscontro. Giovedì scorso, la Commissione elettorarle del Myanmar ha sancito di non aver riscontrato prove di frodi. Perciò ha decretato che il 1° febbraio si sarebbe riunito il nuovo Parlamento emerso dalle elezioni.

Il colpo di stato è avvenuto alle 3 del mattino del 1° febbraio: Aung San Suu Kyi e il presidente della repubblica Win Myint, eletto nel 2018, sono stati arrestati insieme a una trentina di persone ritenute dai militari pericolose per lo Stato. In un istante il Paese è tornato indietro di 10 anni, cancellando il processo di democratizzazione. Tra gli arrestati, ci sono persone vicine a “the Lady” Aung San Suu Kyi, come i suoi legali e segretari. Ma sono stati arrestati e trasferiti in luoghi non resi noti anche scrittori, giornalisti, video operatori. In pratica, chiunque potrebbe intralciare il lavoro del prossimo leader del paese, il comandante delle forze armate Min Aung Hlaing. Il generale, che è ritenuto dalla stampa internazionale il promotore del genocidio dei Rohingya, ha dichiarato che assumerà il controllo del paese per un anno, invocando lo stato di emergenza previsto dalla Costituzione.

Protesta dei birmani che vivono in Thailandia davanti all’ambasciata del Myanmar (AP Photo/Sakchai Lalit)

La situazione è davvero molto pericolosa: il Myanmar (ex Birmania) è purtroppo avvezzo a pluridecennali guerre civili e dure repressioni. Basta ricordare la Rivoluzione 888 (8 Agosto 1988), quando i militari rifiutarono di cedere il potere dopo aver perso le elezioni: trucidarono migliaia di studenti e attivisti politici, costringendo alla fuga centinaia di migliaia di persone, che si rifugiarono in Thailandia, dove ancora oggi sono presenti ben 9 campi profughi. L’8888 fu una repressione, non l’unica, nella quale mai sapremo quante persone morirono.

Nel 2007, ci fu la Rivoluzione zafferano, promossa da monaci buddhisti e gente comune, finita anche questa con una feroce repressione, usando l’insetticida contro i manifestanti.

Alla gente del Myanmar, adesso potrebbe non rimanere altra scelta che la protesta, la lotta. E potrebbe scorrere molto sangue nei prossimi giorni per le strade di Yangon e di Mandalay.

Chi potrebbe mediare? Certamente la Cina, che ha un canale diplomatico preferenziale in Myanmar, ma anche la Russia e l’Unione Europea. Difficilmente gli Usa di Biden. Le agenzie cinesi hanno già cominciato a parlare di “problemi interni in Myanmar”, un modo elegante per dire: a noi non interessa. E invece ci riguarda tutti, soprattutto se ci sarà una strage, se ancora una volta il Paese cadrà in una sanguinosa dittatura. Anche l’Unione dei paesi del sudest asiatico, l’Asean, dovrebbe intervenire. Ma a livello diplomatico tutti possiamo far sentire la nostra voce, far arrivare messaggi e proteste alle ambasciate. E non c’è molto tempo per farlo.

Nessuno si salva da solo” scrive papa Francesco nella Fratelli tutti, e in Myanmar ci sono molti fratelli e sorelle mie, tue, nostre che rischiano la vita.

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