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Persona e famiglia > Audioletture

L’attesa

di Marco Bottoni

La riflessione di un lettore di Città Nuova su una discussione ampia e diffusa alla quale tutti noi, esseri pensanti, dovremmo sentire il dovere di partecipare, ognuno con il suo portato di pensieri, di convinzioni e di sentimenti (music: Bendsound)

(da Pixabay)

Ascolto Mozart.

Condannato all’intelligenza quotidiana delle cose, dei fenomeni e delle convenzioni, obbligato a lavorare di calcolo, di peso e di misura, mi trovo a fare i conti con la necessità di rimediare, almeno, al peggio, e di doverlo fare oggi: se no, quando?

Ogni giorno devo conoscere per poi capire e quindi agire, e se nel compito di smontare e rimontare i pezzi mi aiuta il mestiere, resta comunque e sempre la fatica di riuscire a dare, alla fine, un senso a tutto; giunti a sera, resta la necessità di recuperare, di ogni giornata, una valenza, un senso, un gusto.

Non sempre è facile.

Una parvenza di consolazione sta nel trovare qualcosa, in ciò che è stato delle mie ore, che sia esteticamente bello; ma accade così di rado che a volte mi sconforta l’idea che non sia possibile vivere una tale sintesi di calcolo e bellezza, di creatività e misura, di libertà e rigore.

O almeno che non sia dato a me di farlo.

Allora, ascolto Mozart, e all’improvviso trovo ciò di cui vado disperatamente in cerca: il farsi cosa una di poesia e di genio, di sogno e di realtà è lì davanti a me, miracolo reale ed esistente.

Ascolto Mozart e vivo la certezza che ciò di cui ho bisogno, un equilibrio perfetto di regole e di libertà, esiste.

Il dolore, tu dici.

Già, il dolore.

Finché è poco, finché è piccolo e lontano, nel maneggiarlo mi aiuta il mestiere.

Cerco di non avvicinarmi troppo, di starne un po’ a distanza; se è il caso uso i guanti.

Faccio così, quando è il dolore degli altri.

Quando è il mio, non mi resta altro da fare che attraversarlo.

Come tutti.

A forza di viverci immerso, distratto o cosciente, ho imparato che è inutile chiedere: “Perché il dolore?”

Una domanda così la si può porre solamente o all’Uomo o a Dio: l’Uomo non sa cosa rispondere; Dio, come risposta, prende la sua croce e si mette a soffrire con te.

Anche Ciajkovskij ascolto, nell’attesa.

Anche Bach.

Non nell’attesa di cosa, o di chi.

Non mentre sono in attesa: mentre sono l’attesa.

Non chiedermi di spiegarti cos’è l’attesa, non saprei farlo, a parole.

A immagini, forse.

L’attesa è un grosso vaso dal lungo collo stretto, e quel vaso è mio, e quel vaso sono io.

Così come sono fame rispetto al cibo e sete rispetto all’acqua, così come sono desiderio rispetto al piacere e pensiero rispetto alla realtà delle cose, allo stesso modo io sono attesa rispetto all’Esistenza.

Nel tempo (lo misuriamo in giorni, oppure in ore; viviamo attimi e facciamo calcoli di anni, ma è sempre e solo uno, il Tempo) nel tempo il vaso pare crescere di dimensione, come se diventasse più grande e più capace.

Ma il vero è che quasi sempre si fa solo più grosso di spessore, diventando, se mai, più greve e pesante.

A me piace quando si espande, e diventa sottile e leggero, tanto grande che potrebbe comprendere tutto, tanto esteso da perdere quasi la sua curvatura.

Mi piace quando la vita si mette a soffiarci dentro, nel vaso, e ci fa entrare profumi e sapori nuovi, creando un vortice che spinge fuori il vecchio e il consunto, il muffito, lo stantio.

Mi piace che il respiro dell’esistenza si spinga fino in fondo a me, che arrivi fino al fondo del vaso che è in me.

Dello spazio che è di me.

Profumo, musica, pensiero, affetti ed emozioni, sapori, immagini, ricordi, qualsiasi sensazione, tutto diventa mio per quanto e in quanto si espande nello spazio del mio vaso.

Nell’attesa.

Tutto si fa più grande e più godibile quanto è più vasto lo spazio che, di me, gli lascio per essermi dentro.

Quanto più è vuoto.

C’è stato un tempo nel quale accumulavo, in me.

Non ti importi sapere cosa, non è l’elenco che conta: è il modo.

Qualsiasi cosa fosse mi preoccupavo di possederla, di trattenerla nel modo dell’avere.

Un oggetto, una donna, una storia; i ricordi, perfino la rappresentazione di me come persona: cercavo di stivare tutto dentro il vaso, e di tutto volevo accumularne il più possibile.

Averne sempre di più.

Man mano che mi riempivo di avere, il soffio dell’esistenza rimaneva dentro me sempre meno, al vaso rimaneva sempre meno spazio di cui essere ed era sempre più corto il respiro che faceva, in me, la vita.

Non è difficile da comprendere come, continuando così, presto o tardi la misura si sarebbe colmata, capire che anche il più grande dei volumi, continuando ad aggiungere di che occuparlo, si sarebbe riempito, che lo spazio si sarebbe esaurito, prima o poi.

Eppure, non capivo.

Sempre più ricco di avere e meno libero di essere, diventavo pesante, rigido e immobile, ma ancora non capivo.

Di ogni cosa mi costava fatica liberarmi, mi sembrava di perdere un po’ di quello che era mio, così continuavo a vivere tutto (esperienze, rapporti, conoscenza, persino emozioni e pensieri) secondo una modalità di accumulo.

E all’aumentare del volume di ciò che era mio diminuiva lo spazio a disposizione dell’esistenza di quello che ero io.

Ora, lo capisci anche tu come è andata.

Di mancanza di respiro si muore, e visto che sono ancora qui, vuol dire che non mi sono “soffocato” del tutto.

Pieno di me, saturo di cose messe male, intasato di oggetti inutili e pesanti, intossicato di avere, finalmente (e fortunatamente, devo dire) ho vomitato.

Male sono stato, tanto male che “a momenti muoio”, ma non sono morto.

Sono stato aiutato.

Sono stato curato.

E poi, visto che non ero morto di avere, ho cominciato a vivere di essere.

E sono stato.

Ti assicuro che è meglio così, è meglio essere.

È meglio il vaso sempre vuoto.

Dentro il vaso vuoto, nell’attesa, arriva esattamente tutto quello che c’era prima.

Tutto, credimi.

La cultura, la conoscenza, l’esperienza, il piacere e il dolore, la salute e la malattia, la disponibilità di beni materiali e il livello di benessere economico.

La storia, il presente e il passato.

La realtà della vita quotidiana.

I rapporti.

Il calore degli affetti e il freddo della mancanza, di qualsiasi mancanza.

La memoria, la speranza.

Il pensiero.

Le idee.

C’è tutto, solo che è messo in modo diverso.

Non è più accumulato e stratificato.

Posseduto.

È volatile e precario, entra ed esce da me col respiro che fa, nel vuoto del mio vaso, la Vita.

È goduto e adoperato.

Respirato.

Non costituisce più quello che è mio, ma quello che sono io.

Non quello che ho ma quello che è in me.

Non posso più possederlo come qualcosa di certo e sicuro, a mia completa disposizione, posso solo viverlo nell’entrare e uscire che fa, giorno dopo giorno, dal mio vaso.

Non mi è più dato di avere nulla, tutto può solo essere.

Nel grande vaso che è di me.

Nell’attesa.

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