Multilaterali e felici di esserlo

L'amministrazione Obama sta introducendo nell'agone politico mondiale un tono più dialogante e fattivo. Che deve passare ai fatti concreti.
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In campo internazionale non bisogna mai perdere di vista le condizioni reali del mondo, le sue difficoltà, a cominciare dai focolai di conflitti, dalle tensioni, dalle crisi. Per questo, non si può cadere nell’ingenua impressione che, a quattro mesi scarsi dal giorno del giuramento, Obama sia riuscito a cambiare il mondo. Il team di esperti e di politici navigati di cui si è circondato (a cominciare da Hillary Clinton e Joe Biden) non è certo incline ai facili entusiasmi e alle valutazioni avventate. Tuttavia, una cosa è sicura: il mondo non sarà cambiato, ma sono cambiati ed anche in modo repentino e radicale i toni della politica internazionale.

La sostanza rimane complicata, questo è vero, ma sullo scenario mondiale spesso la forma aiuta ad ammorbidire e rendere più trattabile la sostanza. Non c’è una mossa compiuta dal nuovo presidente statunitense che non vada esattamente in questa direzione. Può darsi che sia una sorta di luna di miele con l’opinione pubblica mondiale, ma è anche vero che le rotture rispetto al recente passato sono evidenti, così come le aperture in vista della soluzione di questioni che restano estremamente gravi e spinose.

Su tutto, c’è una fondamentale scelta della nuova amministrazione statunitense, ed è quella del multilateralismo, cioè la convinzione che i dilemmi mondiali non possano essere risolti in solitudine neanche dalla maggiore potenza del pianeta, né attraverso composite ed eterogenee coalizioni di volenterosi che si uniscano di volta in volta alle cause che essa sponsorizza. E la nuova dottrina multilateralista di Obama non è solo quella delle grandi celebrazioni (come la partecipazione al vertice tenutosi a Strasburgo per il 60° anniversario della Nato), ma anche e soprattutto quella delle idee nuove, dei gesti simbolici che intendono dare segnali precisi in direzione della cooperazione e non in quella dello scontro. Il discorso sul disarmo nucleare tenuto nella piazza del Castello a Praga è uno di questi gesti, per nulla casuale, perché viene a stemperare anzitutto una tensione con la Russia che era andata crescendo per via del progetto dei radar antimissili che l’amministrazione Bush aveva deciso di installare in Polonia e Repubblica Ceca.

Inoltre l’anno prossimo si terrà una fondamentale conferenza internazionale di revisione del Trattato per la non proliferazione delle armi nucleari, dopo il fallimento di un analogo appuntamento svoltosi nel 2005. È evidente che non si può parlare con qualche credibilità di non proliferazione delle armi nucleari se non si parla anche contemporaneamente di disarmo nucleare, cioè se anzitutto le cinque potenze nucleari dichiarate (Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Cina e Russia) non cominciano a dare l’esempio avviando o rilanciando un processo di disarmo controllato, bilanciato, verificabile.

La mossa di Obama mira inoltre a creare un clima diverso anche per quanto riguardo il programma nucleare iraniano, le cui implicazioni militari rappresentano tuttora uno dei temi più critici e pericolosi per la stabilità internazionale in una regione calda come il Medio Oriente. Certo, ci vorranno non solo parole, ma una vera ed incisiva strategia diplomatica, anche perché sia da parte di Israele che da parte di molti Paesi arabi sunniti cresce la preoccupazione dinanzi all’enigma iraniano. Ma Obama si dimostra aperto anche ad altri filoni della politica internazionale che gli Stati Uniti hanno affrontato negli ultimi anni in modo quanto meno contorto, come ad esempio il tema del dialogo tra le civiltà, ed in particolare il rapporto con le grandi nazioni a maggioranza islamica. Non è un caso che Obama si sia fatto vedere ad Istanbul, nel corso della sua recente visita in Turchia, anche al Forum dell’Allenza delle civiltà, un’iniziativa voluta da Spagna e Turchia come risposta politica e culturale al tema dello scontro tra le civilità.

Infine, il rapporto con quello che molti presidenti statunitensi hanno tradizionalmente considerato il cortile di casa, vale a dire l’America Latina. Il continente negli ultimi anni ha fatto registrare una netta tendenza a contrapporsi o comunque a rapportarsi dialetticamente con gli Stati Uniti (basti pensare a Chavez o ad Evo Morales). Nell’ultimo vertice dei Paesi americani, Obama ha lanciato segnali in netta discontinuità con il passato, arrivando persino a rompere il tabù dei rapporti con Cuba, anche se siamo ancora alquanto lontani da una normalizzazione.

In generale, la crisi economica e finanziaria ha trovato un presidente degli Stati Uniti pronto al coinvolgimento di tutti coloro che possano contribuire alla sua soluzione: in questo quadro, il ruolo del G20 è cresciuto enormemente, tanto da far pensare che il vecchio G8 sia un arnese ormai superato, o quanto meno non più rappresentativo né della maggioranza della popolazione del mondo né della parte più cospicua del prodotto lordo globale.

Si è insomma avviato un processo di revisione profonda di quella che viene chiamata la governance mondiale, cioè la guida politica ed economica del mondo, che probabilmente finirà per coinvolgere, oltre alle istituzioni economiche, anche quelle politiche, come ad esempio il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Esso rappresenta, oggi, un residuo della Seconda guerra mondiale, che nulla o poco ha a che fare con la redistribuzione del potere sul piano internazionale e soprattutto con la necessità di assegnare nuove responsabilità globali a Paesi emergenti, senza il cui contributo il mondo rischia di apparire (non essendolo più nei fatti) una mera proiezione dell’Occidente. Un compito titanico, che certo non può essere portato a termine da un solo uomo né da un solo Paese.

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