Moro: la lezione di un vero cristiano

Un esempio di uomo e di politico da riproporre nel cammino verso l’unità nella diversità

Aldo Moro, allora presidente della Democrazia Cristiana, venne brutalmente assassinato dalle Brigate Rosse l’8 maggio 1978: chi oggi è uomo maturo, almeno in età, e ha memoria di quella vicenda umana prima ancora che politica, può porsi alcune domande e riflessioni.

Come si può “gettare un ponte” tra quei fatti e una realtà che attiene non tanto alla sfera politica, intesa come luogo di confronto tra le forze politiche finalizzato all’esercizio del governo, quanto a quella prepolitica, in cui operano tante organizzazioni del Terzo Settore (volontariato, cooperazione e promozione sociale), presenti all’interno del tessuto sociale nazionale, di varia ispirazione, laica o cattolica che siano?

La vicenda di Moro si lega in profondità con quelle che furono, negli anni del secondo dopoguerra, le attese, le ansie di trasformazione e le contraddizioni che la società italiana visse, in direzione di processi riformatori di maggiore equità e progresso, dopo la conclusione della ventennale esperienza del regime fascista che aveva portato il Paese al conflitto.

Quelle ansie e tensioni erano andate crescendo nelle nuove generazioni che si succedettero negli anni seguenti e Moro, come professore universitario prima ancora che come politico, ebbe modo di viverle, capirle e interpretarle. Cercò di indirizzarle verso una visione che non era quella della contrapposizione, bensì del dialogo e della possibile costruzione di un terreno di condivisione, pur nel rispetto delle diversità e delle peculiarità delle diverse componenti sociali e politiche, così come delle sensibilità di cui ciascuna di esse era portatrice.

Il suo assassinio, come ormai è da tempo noto, rispose più a logiche “esterne” che interne. La linea di avvicinamento che lo statista pugliese portava avanti tra le due maggiori forze politiche del momento, la Democrazia Cristiana, principale partito di governo dal 1945, e il Partito Comunista italiano, da sempre all’opposizione, avrebbe infatti “destabilizzato” equilibri ed interessi delle due superpotenze, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, che in quel periodo svolgevano il ruolo di “gendarmi” nella scena politica internazionale.

Così Moro, uomo mite ma deciso, convinto che solo da un’intesa tra le due maggiori forze politiche sarebbe potuta scaturire la realizzazione di quelle riforme (scuola, sanità, fisco, apparato burocratico, per citarne solo alcune) di cui l’Italia aveva e ha bisogno, finì per diventare il “capro espiatorio” di qualcosa che rientrava in una cinica, più grande logica.

Di quella spietata logica gli assassini, in nome di una farneticante quanto falsa “strategia rivoluzionaria”, si resero gli strumenti, il braccio violento che cercò di bloccare il grande disegno di unità nella diversità, e di collaborazione, perseguito da Moro. Quel disegno è rimasto inattuato anche nell’evoluzione successiva del sistema politico italiano, resa certo più complessa dalla tardiva transizione del maggior partito di opposizione verso un assetto organizzativo e un’impostazione ideologica che lo rendessero autonomo nei confronti dell’Unione Sovietica.

Quella transizione sarebbe, infatti, avvenuta solo dopo la caduta dell’Unione Sovietica e la fine del cosiddetto “socialismo reale” nell’Est europeo: negli anni Ottanta, superata l’emergenza brigatista passando attraverso l’inaccettabile sacrificio della vita di Aldo Moro, la formazione del Pentapartito (coalizione politica di Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli) riportò il Pci a una rinnovata opposizione.

Aldo Moro, uomo buono formato ai valori del personalismo cristiano e politico, aperto al dialogo nella prospettiva della costruzione del bene comune, appare oggi per chi è cresciuto nella ricerca di traguardi di maggiore giustizia sociale e nel richiamo ai valori dell’etica cristiana, come un punto di riferimento. Così appare anche a chi scrive che, nella non breve attività di docente liceale che lo ha messo in contatto con numerosi giovani, ha cercato di presentare quella figura come un possibile esempio per il presente.

Un presente in cui ancora sembrano prevalere divisioni e particolarismi, anziché l’autentica ricerca di terreni condivisi per la realizzazione di quel bene comune che era al centro dell’attenzione e della preoccupazione dell’uomo e del politico Aldo Moro.

E così, gli ideali da lui perseguiti di una convivenza ispirata al dialogo nel rispetto delle diversità – in una società divenuta oggi, in seguito ai grandi movimenti migratori extraeuropei, sempre più multiculturale e bisognosa di inclusione piuttosto che di esclusione –, possono ritrovarsi più nella sfera prepolitica del variegato mondo del volontariato e dei movimenti, che non in quella più propriamente politica.

Questa considerazione non vuole certo negare il ruolo che, in una democrazia avanzata come quella italiana, devono avere i partiti come espressioni istituzionalmente organizzate dei molteplici modi di concepire l’organizzazione della comunità nazionale da parte delle diverse componenti sociali. Piuttosto vuole sottolineare come esista una sorta di scollamento tra un mondo politico che appare legato a logiche particolari, e le richieste urgenti, come il lavoro per i giovani, emergenti da una società civile i cui bisogni sono andati crescendo negli anni successivi al secondo dopoguerra fino ai giorni nostri.

L’ideale dell’unità della famiglia umana ha caratterizzato, negli anni successivi al Concilio Vaticano II, il magistero della Chiesa, dal pontificato di papa Paolo VI a quello attuale di papa Francesco, passando per quello di san Giovanni Paolo II, che nel 1896 si fece promotore del primo grande incontro interreligioso ad Assisi.

Ed è anche l’ideale che un giovane Aldo Moro aveva fatto suo, negli anni antecedenti al secondo conflitto mondiale, prima del suo ingresso in politica, all’interno del movimento giovanile universitario cattolico, la Fuci, di cui diventò presidente alla vigilia della guerra, stabilendo un’amicizia con monsignor Giovanni Battista Montini, il futuro papa Paolo VI, che ne era stato, tra il 1925 e il 1933, assistente centrale.

Un movimento, la Fuci, che verrà in seguito “travolto” dalle spinte radicali del ’68, e nel quale Moro aveva consolidato una visione ispirata ai valori della condivisione e del dialogo.

Scriveva nel 1976, due anni prima della tragica scomparsa, che troppo spesso la cronaca dà rilievo al negativo, ma che il bene, anche se non fa notizia perché sembra quasi essere dato per scontato, esiste ed è superiore al male.

Questa lezione di umanità di un vero cristiano, martire contemporaneo di una fredda logica che, allora come oggi, pur in un contesto politico internazionale e nazionale profondamente mutato, sembra spesso imporsi o sovrapporsi alla prospettiva del bene comune, credo possa e debba essere ripresa nel presente e portata avanti con decisione.

 

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