Morire di riunioni

Dimmi quante riunioni fai e ti dirò chi sei. Ecco il nuovo parametro della scala sociale. Pochi appuntamenti in agenda, poco onore. Fai un po’ il consuntivo dell’anno, ora che sei prossimo alle sospirate ferie. Chi realmente sembra contare nella nostra società post-moderna, ipertecnologica, super-accessoriata passa da una riunione all’altra, magari – ma è ancora merce per pochi – con l’effetto speciale di un collegamento in videoconferenza nel corso dell’incontro. Gli amanti della lingua inglese – e, ancor più, della considerazione di sé – usano una varietà di termini (da meeting a briefing), ma non lasciatevi intimorire: sempre di riunioni si tratta. È questa la tendenza che sta andando per la maggiore, quasi un fenomeno alla moda, alimentato probabilmente da un grande desiderio di apparire, mutuato dai programmi delle nostre democratiche e compiacenti reti televisive, dove una presenza e un intervento non vengono negati a nessuno. Per di più, in un mondo in cui sembra che gli otto grandi della Terra scelgano per tutti noi, una molla interiore spinge tanti alla ricerca di una qualsiasi convocazione per conquistare la possibilità di decidere finalmente delle sorti proprie e, soprattutto (qui risiede l’ebbrezza del potere), degli altri. Non lasciatevi incantare. Nessuno vi dirà che è contento. Lamentano l’eccessivo numero di convocazioni, ripetono che un tempo era diverso, ma se dal loro orizzonte esistenziale fossero tolti questi appuntamenti, li vedreste ben presto appassire come fiori, entrare in crisi d’astinenza, precipitare in uno stato di prostrazione psicologica. Anche aziende, organizzazioni, associazioni, ma pure diocesi, parrocchie e gruppi ecclesiali, non sono da meno. Riunioni ad ogni livello si vanno moltiplicando, quasi a voler sottolineare la dinamicità dell’ente stesso. Indire un consiglio (non importa su quali temi) è inequivocabile segno di una presenza vivace e di una solida ragion d’essere. Forse è anche per questo motivo che, talora (o spesso?), meno si è incisivi sul mercato, sul territorio o con la gente, più riunioni si tengono. I poveri convocati sono dolorosamente consapevoli che il noioso rituale dell’incontro costituisce uno dei mali necessari della vita di oggi. Quante volte si sente dire: Se non dovessi partecipare alle riunioni, il mio lavoro (o il mio impegno associativo) mi piacerebbe molto di più. Le riunioni costituiscono, in effetti, un paradosso sconcertante: sono fondamentali per l’attività di qualsiasi organizzazione (famiglia compresa), eppure vengono considerate una perdita di tempo; costituiscono il luogo in cui si prendono decisioni cruciali, ma i convocati cercano di evitarle e, una volta in ballo, guardano l’orologio di continuo e non agognano che la fine. Basta con gli incontri!, si leva dal popolo frustrato dei convocati. Ma gli esperti di gestione aziendale avvertono che non è il caso di odiare le riunioni, né di ricercare soluzioni tecnologiche che liberino in qualche modo dal doversi sedere uno di fronte all’altro . Sembra che non ci sia nulla che possa sostituire un incontro. Ma resta vero, secondo gli studiosi, che il buon andamento di un appuntamento molto dipende da vari fattori. L’ordine del giorno, prima di tutto. Evitare, suggeriscono i guru, di mettere troppi punti da trattare, oppure di infilare nel programma ogni genere di questione, come un minestrone con troppi ingredienti. Opportuno scongiurare anche una durata eccessiva del raduno. E, in effetti, la maggior parte di quanti presiedono un incontro ce la mettono tutta per chiudere in orario ed evitare le tensioni. Nobili obbiettivi – sostiene con ironia Tom Peters, uno dei maggiori consulenti aziendali, nel suo libro Leadership (Sperling & Kupfer) -, ma sono spesso all’origine delle cattive riunioni. E le cattive riunioni vanno considerate come la peste. Portano quasi inevitabilmente a cattive decisioni, generano non solo un’insoddisfazione momentanea, ma pure frustrazione e rabbia nei confronti dell’organizzazione, con influssi negativi sulla propria esistenza privata e sul modo di vedere la vita. E allora? Le varie scuole di consulenza aziendale non concordano sugli ingredienti per la riuscita della riunione, ma offrono indicazioni da verificare costantemente. Secondo alcune, le riunioni vanno considerate come dei film (e non solo per la durata, spesso simile): il segreto sta nei primi dieci minuti. Se all’inizio i partecipanti vengono catturati da motivi d’interesse e d’attenzione, essi saranno poi disposti a sopportare le fasi noiose. La buona riuscita, secondo altre correnti di pensiero, sta nel costante impegno di scavare, per tirare fuori dalle persone le loro reali opinioni. Si eviterebbero così tre spiacevoli effetti: la noia immediata, decisioni mediocri raggiunte e la beffa di sentirsi dire dopo qualche tempo: Non sono mai stato davvero d’accordo con quella decisione quando ne abbiamo discusso. Secondo Patrick Nencioni, consulente aziendale statunitense, il problema non è che facciamo troppe riunioni. Il problema è che ne facciamo troppo poche. Sob! E nel suo recente libro Morto di riunioni (Etas) sostiene che vanno fatte con cadenza giornaliera, settimanale, mensile e trimestrale sulla base dei diversi obiettivi di gestione. Oltre alla frequenza, resta per lui vero che le cattive riunioni nascono dall’atteggiamento e dall’approccio mentale delle persone che le conducono e che vi prendono parte. Un presidente che, al termine dell’incontro, se ne esce con un Andiamo ora ad occuparci del lavoro vero, pregiudica di colpo l’andamento dei successivi appuntamenti. Domani, vi aspetta l’ennesima riunione? Coraggio! Così è la vita. Conviene allora andarci non con lo spirito del condannato a morte. Piuttosto, con la consapevolezza di offrire un contributo costruttivo e piacevole. Metti le tue parole su un vassoio d’argento e offrile con semplicità, garbo e simpatia – raccomanda Carlo Macello, esperto di comunicazione -. La gente è stufa di parole brandite per scomunicare anziché comunicare. E soprattutto sorridi. Anche nel mondo ecclesiale, incontri, adunanze, consigli mostrano analoghi limiti. Troppe volte s’improvvisa, con improbabili ordini del giorno e incerte conduzioni. Spesso, la capacità di comunicare non sostiene le buone intenzioni. Resta spesso inapplicato uno dei più antichi consigli di retorica che raccomanda a chi parla in pubblico tre semplici regole: avere qualcosa da dire; dirla; smettere di dirla. Dote, quest’ultima, non affatto di tutti. Secondo alcuni, se il tempo delle riunioni fosse speso in preghiera, il mondo e la Chiesa andrebbero molto meglio. Facile a dirsi. Eppure, le riunioni sembrano davvero necessarie. Ma se si devono fare, Roberto Beretta, giornalista di Avvenire e abituale frequentatore di incontri cattolici, consiglia, nel suo libro Da che pulpito… (Piemme), almeno di non parlare male degli assenti, non lamentarsi continuamente, non mirare a convincere, parlare solo di ciò che si conosce. Suggerimenti, questi, che non garantiscono riunioni piacevoli, ma assicurano incontri più brevi e corrette relazioni tra i partecipanti. Presupposti per giungere a sagge decisioni.

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