Monte Paschi, Fonsai e Mediaset: ora bisogna cambiare rotta

L'Italia, secondo il rapporto 2013/14 sulla competitività del World economic forum, è 49ª dopo Estonia, Malesia e Azerbaijan e 72ª per la corruzione. Cosa bisogna fare per rilanciare il Paese? Qualche considerazione partendo dai recenti casi di cronaca e tenendo presente, come ammonisce Draghi, che l'Italia rischia ancora
Monte dei Paschi di Siena

«L’Italia è una schifezza!», commentava amaramente un cittadino su un quotidiano, dopo che un farmaco a basso costo che aveva dato buoni risultati per alcune patologie dell’occhio era sparito dal prontuario del nostro Servizio sanitario nazionale, sostituito da un altro molto più costoso e con indicazioni in parte diverse.

Molti altri avranno pensato la stessa cosa dopo l’uscita del Rapporto sulla competitività 2013-2014, curato dal World economic forum. Siamo quarantanovesimi! Più in basso di tutti i Paesi che contano, ma anche più in basso di Estonia, Lituania, Repubblica Ceca, Cile, Thailandia, Indonesia, Turchia, Malesia, Azerbaijan.

Se ci confrontiamo, non dico con gli svizzeri (primi per la quinta volta consecutiva!), ma con i francesi, a noi più simili da tanti punti di vista, ci accorgiamo di essere dietro a loro in tutti i 12 indicatori su cui quella graduatoria si basa. Questi dati non vanno mai presi alla lettera, ma nemmeno sottovalutati: se anche in questa classifica facciamo una pessima figura – oltre che ad esempio in quella della corruzione (settantaduesimi), o in quella della facilità di svolgere un’attività economica (settantatreesimi) – forse qualche responsabilità ce l’abbiamo.

Il governo Letta sta faticosamente cercando di prendere dei provvedimenti tampone nel tentativo di frenare la crisi in cui siamo immersi e magari anche di avviare un minimo di ripresa. Giusto e necessario! Ma non illudiamoci che basti. Occorre un cambiamento ben più profondo. La cronaca recente ci fornisce almeno tre vistosi esempi che possono farci riflettere a questo riguardo.

Il primo riguarda il Monte dei Paschi di Siena, banca con più di 500 anni di storia, che dopo aver subìto perdite per otto miliardi di euro, sembra avviata sulla via del risanamento grazie anche a una robusta iniezione di soldi pubblici. L’azionista di maggioranza è la Fondazione Monte dei Paschi, da sempre sotto il controllo diretto e indiretto della maggioranza di sinistra che ha governato città e regione, anche se da alcune testimonianze affiorano pure patteggiamenti con il centrodestra.

La legge Amato riformò le Casse di Risparmio e altri istituti di credito semipubblici, separando le imprese bancarie dalle Fondazioni bancarie. A queste fu affidato il compito di gestire un patrimonio consistente (varie decine di miliardi di euro nel loro insieme e con il reddito ottenuto sostenere iniziative assistenziali, culturali, scientifiche…) a beneficio del loro territorio. A tale fine le fondazioni, inizialmente proprietarie del cento per cento delle corrispondenti banche, avrebbero dovuto via via ridurre la propria quota azionaria e acquistare un mix di attivi finanziari meno rischioso.

Molte fondazioni sono state restie a cedere il controllo delle rispettive banche, anche perché non era chiaro chi lo avrebbe preso. Ma quello di Siena è un caso estremo: la Fondazione Monte dei Paschi ha fatto di tutto per poter mantenere la maggioranza nell’azionariato di Banca Montepaschi, e quando si è pienamente manifestata l’insana gestione di questa e le azioni sono crollate di valore, alcuni miliardi di patrimonio della Fondazione sono andati in fumo.

Un particolare non secondario è che Giuseppe Mussari, la figura che porta le maggiori responsabilità del tracollo della banca – prima per l’acquisto di Banca Antonveneta ad un prezzo stratosferico, e poi per la stipula segreta di contratti derivati allo scopo di nascondere le perdite –, prima di essere nominato presidente della banca era stato presidente della fondazione e, come se non bastasse, nel bel mezzo di tutto ciò era stato riconfermato presidente dell’Associazione bancaria italiana.

La seconda vicenda di cronaca è il caso Fonsai, compagnia assicurativa controllata per circa un decennio dalla famiglia Ligresti, e da questa dissanguata attraverso erogazioni di vario genere a beneficio della famiglia stessa (compensi milionari a tutti i fratelli, consulenze per un totale di 42 milioni al padre Salvatore, acquisti di immobili della famiglia a condizioni di favore, sponsorizzazioni di attività di interesse della famiglia) per un totale di alcune centinaia di milioni, il tutto nascosto attraverso artifici contabili, tra cui una sottovalutazione delle riserve di legge a copertura dei rischi assunti.

Un aspetto preoccupante della vicenda è l’inadeguatezza del ruolo svolto delle autorità di controllo: l’Isvap, che ha per compito statutario proprio di evitare simili abusi nel delicato settore delle assicurazioni, e la Consob, a cui spetta la difesa degli interessi degli azionisti di minoranza. Un altro aspetto preoccupante è l’intreccio di poteri che ha legato la famiglia Ligresti al sistema finanziario nazionale, testimoniato dal fatto che al momento del tracollo di Fonsai, Salvatore Ligresti sedeva nel consiglio di amministrazione di Unicredit, mentre la figlia Jonella sedeva in quello di Mediobanca, non a caso le due banche che al gruppo Ligresti hanno elargito fiumi di denaro.

Il terzo è il caso Mediaset. Televisioni e giornali si sono concentrati sui dettagli procedurali riguardanti il processo e l’esecuzione della sentenza, lasciando in ombra la sostanza della vicenda. Il processo ha accertato, stando alle sentenze, che l’acquisto dei diritti televisivi (necessari per poter trasmettere film americani) da parte di Mediaset passava attraverso una rete di società di comodo facenti capo alla famiglia Berlusconi e aventi sede in paradisi fiscali, e che, per via di questa intermediazione fittizia, nell’arco di quasi un ventennio Mediaset ha pagato per quei diritti televisivi un sovrapprezzo di varie centinaia di milioni.

In tal modo sono state evase imposte, sono stati violati i diritti degli azionisti di minoranza e si è creata un’enorme disponibilità di fondi neri, capace di alimentare episodi di corruzione, come quello, pure accertato da un’altra sentenza della Cassazione, in cui Cesare Previti corruppe il giudice del processo Mondadori Vittorio Metta servendosi di denaro proveniente dal conto svizzero All Iberian, che era appunto nella disponibilità di Silvio Berlusconi.

L’economia italiana ha bisogno di uno scossone che intacchi in profondità le logiche perverse da cui sono governate le nostre istituzioni economiche (non solo quelle politiche). Tenere a freno la sete di potere e di arricchimento personale (anche a scapito dell’interesse del Paese) non è cosa facile e solo un diffuso cambiamento di valori può sortire dei risultati. Ma almeno una cosa si può fare da subito per ripartire: tornare al rispetto della legge, nella forma, ma ancora di più nello spirito.

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