Cile, i molti volti di un Paese che vuole sperare

Il papa in visita a una delle nazioni più stabili e istituzionalmente solide dell’America latina, ma contrassegnata anche da profonde disuguaglianze e dalla segmentazione sociale

Non è facile riassumere in poche pennellate tutto un Paese, la realtà sociale, economica, religiosa… Il cronista, la cui visione è sempre parziale, corre il rischio inevitabile di trascurare qualcuno dei tanti aspetti dell’insieme. Come ogni Paese, anche i volti del Cile che questo lunedì riceverà papa Bergoglio sono tanti. Prima di tutto c’è quello di un Paese che, bene o male, è riuscito ad amministrare la non facile eredità politica e sociale di una dittatura spietata che ha lasciato ferite aperte che ancora non si chiudono.

Sono ormai pochi e poco influenti i settori che rivendicano “l’opera” di Pinochet, ed anche a destra se ne prendono le distanze. Ma è anche vero che la dittatura ha imposto un modello istituzionale, con una costituzione forgiata ad hoc e tutt’ora vigente, ed un modello economico che hanno inciso fortemente in questi anni. Ciò nonostante è un Paese che ha saputo far buon viso a cattivo gioco ed emergere come una delle realtà più dinamiche in una regione caratterizzata da instabilità politica, economica e sociale, da povertà e disuguaglianze.

In questi 28 anni, il Cile si è indebitato poco o niente, ha fatto fronte alla necessità di realizzare infrastrutture su un territorio impervio ed estesissimo soprattutto in lunghezza. Immaginatevi 17 milioni di abitanti sparsi su una striscia di terra lunga 4.300 km, dal tropico del Capricorno, al circolo polare antartico, ma larga in media solo 117 km, praticamente senza pianure e a ridosso della gigantesca dorsale delle Ande.

Un territorio devastato varie volte da grandi terremoti, spesso seguiti da tsunami, come nel 2010 e poi nel 2015, con vulcani periodicamente in eruzione ed anche con inondazioni… persino in pieno deserto. Una terra che non regala niente, ma dalla quale questo popolo estrae le risorse per vivere, dotato com’è di uno spirito eccezionale di adattamento e di tenacità.

Forse a questo spirito si deve che il Cile, insieme all’Uruguay, sia uno dei due Paesi a maggiore stabilità istituzionale, la cui vita avanza senza grandi contraccolpi. Per la seconda volta, si alterna un governo di destra a uno di centrosinistra e ciò senza traumi, con la presidente uscente, socialista, che chiama in diretta tv il presidente eletto, di destra, facendogli i complimenti, mentre il nuovo inquilino della casa presidenziale le riconosce il ruolo svolto.

Con un Pil tra i 18 mila e i 22 mila euro pro capite, l’economia cilena cresce, a volte a ritmo maggiore, altre volte meno. Insieme al Messico, è uno dei due Paesi latinoamericani a far parte dell’Ocde. Ma insieme a questo faccia di risultati poco usuali in America latina, esiste anche l’altra faccia della moneta, quella sociale, in cui la distribuzione del reddito risulta tra le più disuguali.

Sebbene i poveri diminuiscano – dal 15% nel 2010 all’attuale 11,4% della popolazione se si misura il reddito –, quando si misurano anche fattori multidimensionali, come sanità, lavoro, educazione… si arriva al 19,1%. Il 20% della popolazione di maggior reddito accumula il 72% della ricchezza, il 20% più povero registra ricchezza zero o addirittura negativa (cioè, debiti). Ed in queste realtà di povertà, spesso uno dei volti di chi ne sopporta il peso è quello delle donne.

Il 70% dei figli nascono fuori dal matrimonio e quasi sempre sono loro a farsene carico, anche se poi gli stipendi delle donne a parità di mansioni sono inferiori. Il 39,4% dei nuclei famigliari è sostenuto principalmente da loro e circa 1,1 milioni di famiglie sono rette solo da una donna. La metà dei salariati guadagna intorno ai 470 euro al mese; circa un terzo di quanto una famiglia di quattro persone ha bisogno per vivere degnamente.

Sono questi i risultati di una economia neoliberale che ha nel Cile uno dei suoi migliori alunni, una divisione della “torta” che ha reso endemica la frammentazione sociale, forse uno dei maggiori problemi del Paese. Veri e propri mondi che non vengono in contatto (anche a livello ecclesiale). Tra questi, doloroso e spesso condannato all’invisibilità, quello delle minoranze indigene (9% della popolazione), soprattutto mapuche, che costituiscono le comunità più povere del Paese e dove è maggiore la disoccupazione. Un conflitto latente, nel quale una minoranza radicalizzata canalizza il suo disagio spesso in modo violento. La nazione mapuche, che esisteva prima della nascita del Cile, è stata in gran parte spogliata del suo territorio ed oggi avanza a rilento la restituzione di queste terre. Manca anche una formula adeguata che permetta la rappresentazione di questo popolo negli ambiti istituzionali.

In questo contesto di frammentazione, le istituzioni politiche hanno perso in questi anni autorità morale. Il Cile è sempre stato un Paese con poco spazio per la corruzione. Il che ha sempre dato prestigio a istituzioni come le forze dell’ordine, l’esercito o la Chiesa cattolica, o i pompieri – che qui sono al 100% volontari –. Ma in questi ultimi tempi casi risonanti di corruzione hanno colpito duramente sia i carabinieri che l’esercito, insieme a casi di cartelli illegali di prezzi tra alcuni settori industriali (carta igienica, farmacie, carne). Scandali che si sono aggiunti a quello trasversale a tutti i partiti delle fatture false per finanziare i partiti. Un altro colpo allo scarso prestigio delle istituzioni politiche.

Anche la Chiesa cattolica ha perso colpi. Nel passato fino a un 80% della popolazione aveva fiducia nelle istituzioni ecclesiali, che durante la dittatura furono un baluardo nella difesa dei diritti umani. Dal ritorno alla democrazia in qua, la presenza della Chiesa nelle piaghe vive di questa società non ha inciso allo stesso modo, ma anzi è diminuita. I casi di abusi sessuali commessi da sacerdoti e religiosi sono stati un colpo decisivo all’autorità morale della Chiesa. Se nel 1995 il 74% si dichiarava cattolico, oggi lo fa solo il 45%.

Il caso più eclatante è quello del sacerdote Fernando Karadima, che ha avuto un forte ascendente su alcuni settori giovanili, generando un movimento che ha attratto vocazioni sacerdotali, con vari vescovi provenienti da queste. La giustizia vaticana – quella cilena ancora non lo ha fatto – ha condannato questo sacerdote per abusi commessi nei confronti di alcuni giovani. Per anni la chiesa locale prima ha tardato e poi ha nicchiato nel prendere in considerazione le gravi accuse, forse per la fama pubblica di “uomo di Dio” del sacerdote, e per l’azione del suo seguito. Il processo canonico condotto in Vaticano ha non solo condannato ma anche respinto l’appello presentato dalla difesa di Karadima.

Spiace constatare che la difesa abbia centrato i suoi argomenti nel sostenere che all’epoca dei fatti le vittime non erano minorenni (si sostiene che avessero 17 anni). E spiace constatare che sia mancata da parte del condannato una richiesta pubblica di perdono per i danni provocati alle persone. La ferita inferta dal sacerdote non è solo privata, ma anche pubblica proprio per la sua notorietà. Il che avrebbe dovuto generare una maggiore prontezza di riflessi per accompagnare chi in tali circostante non solo era la parte lesa, ma anche quella più vulnerabile.

Si obietterà, ed a ragione, che il caso Karadima non riflette tutta la chiesa cilena, ma appena una piccola ed esigua minoranza. Ed è vero. Migliaia di laici, sacerdoti, religiose e religiose, svolgono un ruolo importante al servizio, spesso degli ultimi illuminati dallo spirito di san Alberto Hurtado, gesuita dalla profonda sensibilità sociale. La Chiesa è spesso come una camicia appena lavata, pulita nella sua parte preponderante, ma con alcune macchie; minime, se si vuole, ma ben visibili. Forse si comprende alla luce degli strascichi di storie come questa il rifiuto di alcuni o il disinteresse di altri ancora nei confronti di questa visita. In verità, attesa da gran parte della gente.

A partire dalla serata di oggi, Francesco si troverà di fronte a questa realtà. Di fronte a questi vari volti, che lui stesso ha detto di voler conoscere da vicino. S’incontrerà con moltitudini che accorreranno da ogni dove per udire una parola di speranza. Folle composte da donne, da umili lavoratori, volti solcati dalle rughe, volti giovanili; volti di fedeli che vivono il loro Vangelo al servizio degli altri. Volti generosi e sofferti che pregheranno col papa per questo Paese che ha voglia di affidarsi alle mani visibili e generose di un Padre provvidente e non alla invisibile mano di un mercato che cerca di insinuarsi ovunque, fabbricando scarti umani. Volti bianchi o cotti dal Sole, dai lineamenti meticci o indigeni che hanno voglia di incontrarsi come comunità e recuperare la voglia di costruire un Cile che sia di tutti e non solo di alcuni. Volti che vogliono tornare a sperare nel continente della Speranza.

 

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