Molti grandi fratelli e una speranza

Annunziato anche da un’apposita opera letteraria, giunge il “1984”. Per il romanzo di Orwell, scritto trentasei anni fa, questo doveva essere l’anno emblematico di una nuova era. Ci sarebbe stata una società guidata dal Grande Fratello, un potere invisibile ma onnipresente, che manipolando 1’informazione e controllando anche i minimi atti e sentimenti privati, rendeva il popolo un gregge e, per di più, un gregge contento di essere tale. Al di là della esattezza delle previsioni, questo anno che comincia sembra tra i più adatti a stimolare l’uomo a riflettere seriamente sulla propria condizione, in seno al formarsi ormai maturo di una nuova epoca, con due caratteristiche più evidenti: la tecnologia avanzata e il rischio nucleare. Sono ambedue fonti di ansia. Due ansie diverse per l’uomo che si sente minacciato nell’un caso in modo subdolo per il proprio equilibrio esistenziale, nell’altro in un modo apocalittico, addirittura per la sopravvivenza della propria specie. (…) Se c’è qualche settore del globo che già sperimenta il 1984 di Orwell sul piano specificamente politico — il socialismo reale —, c’è un’altra grande porzione — la società industriale avanzata con la sua cultura di massa — che lo esperimenta sul piano sociale. Qui opera un Grande Fratello veramente onnipresente (in ogni casa, dentro ogni mente), veramente non individuabile (si traveste in mille forme e assume i volti più diversi). Una potenza misteriosa — la mentalità scientista, materialista, edonista — sta conducendo un’opera carica di violenza morbida, che in pochi anni ha portato abbastanza avanti una radicale devastazione dell’uomo interiore. Una concezione-di-vita facile, senza sforzi né limitazioni, permissiva, spensierata, tutta gratificante piove dai mass-media, espropriando l’uomo della parte più profonda del proprio essere umano: l’interrogarsi sulla propria identità e sul proprio destino, il senso non solo dei diritti, ma anche dei doveri, la cognizione del bene e del male. Non c’è la scomparsa dei valori, c’è il loro rovesciamento: ciò che prima era male ora viene esaltato come segno di liberazione e di progresso. Sotto la maschera di vita danzata e cantata, una crescente massa non pensante vive un’ansia che è solo nevrotica ricerca di autorealizzazione nell’effimero, nel superficiale, nel consumare. E si trasforma in disperazione per le frustrazioni che lo scontro con la realtà continuamente genera, ponendo il seme di risposte diverse – violenza, droga, sesso, aborto, suicidio, delinquenza organizzata, idolatria del denaro – tutte dirette alla morte dell’uomo (…) C’è un fatto che ha cambiato il corso della storia: «In Cristo la divinità non ha compromesso in nessun modo la sua umanità – nota papa Wojtyla – ma l’ha portata a un grande supremo sviluppo ». Anzi in lui anche ciò «che era ferito, può rivivere e fiorire». Conseguentemente «la religione cristiana tende a promuovere tutto quello che è umano». Ora, in questo tempo in cui imperversa la cultura dell’odio e della morte, come frutto costatato dell’umanesimo ateo, occorre annunziare con la parola e dimostrare con i comportamenti concreti che l’umanesimo agganciato a Dio porta la pienezza e la salvezza della vita umana. Per i cristiani si fa sempre più incalzante il dovere di aprirsi con maggiore impegno all’angoscia dei compagni di viaggio e non lasciarli soli a disperarsi e a sbranarsi. Debbono maturare in sé il convincimento che si può essere cristiani completi senza bisogno di abdicare al proprio essere uomini. E che si può essere uomini interi senza abdicare in nulla al proprio esser cristiani. Con questa pienezza d’umanità e di fede si può condurre una tenace e vasta opera nelle strutture umane, in tutte le nuove forme offerte dalla società contemporanea. E lì essere, con delicata fortezza, testimoni della speranza.

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