Il mistero del Moai a Vitorchiano

Come mai questo antico borgo della Tuscia ospita una perfetta riproduzione di un monolite dell’Isola di Pasqua?
Statua Moai a Vitorchiano (Vt). (Foto di Gabriele Maccaroni, Wikimedia Commons, Creative commons Attribuito share alike 4.0)

A un quarto d’ora d’auto da Viterbo, Vitorchiano salta all’occhio per l’integrità del suo nucleo antico: un tutt’uno con lo sperone di roccia vulcanica che ne sostiene gli edifici, molti dei quali arroccati a strapiombo sulla sottostante Valle del Vezza, tra torrenti e boschi di querce, frassini, faggi, olmi e castagni. Una doppia cinta di mura divide la zona rinascimentale da quella medievale del centro storico, dove fontane, lavatoi, porte urbiche, chiese e palazzi nobiliari formano un agglomerato compatto e armonioso.

Veduta di Vitorchiano Foto di Di K.Weise, Opera propria, Pubblico dominio, Wikimedia Commons)

Il visitatore che, arrivando, si aspetta di trovarsi in uno dei tanti borghi semiabbandonati della Penisola, deve ricredersi: gli abitanti fanno di tutto per renderlo sempre più attraente con una profusione di piante fiorite in ogni viuzza, su ogni balcone e scala esterna in pietra, dappertutto. Con le sue botteghe artigiane ricavate al pianterreno delle antiche case, i suoi ristorantini tranquilli dove è possibile gustare le eccellenze enogastronomiche del territorio, a ragione Vitorchiano è censito tra i borghi più belli non solo della Tuscia, ma dell’intera Penisola.

In anni recenti, poi, si è arricchito di un’altra attrattiva turistica. Collocata in largo Padre Ettore Salimbeni, che si affaccia su uno straordinario belvedere, si erge una imponente scultura alta circa sei metri e pesante quasi trenta tonnellate: un Moai, del tutto simile alle statue monolitiche che hanno reso celebre l’Isola di Pasqua, con tanto di pukao sulla testa (copricapo, corona o acconciatura maschile) volge il suo sguardo enigmatico ma benaugurante, assicurano gli esperti di tradizioni pasquensi, verso il vicino “Borgo sospeso” di Vitorchiano.

Spontanea, nasce la domanda: che ci fa lì un Moai dal remoto Oceano Pacifico? Per qualcuno, tra l’altro, questo esemplare di una cultura aliena mal si armonizzerebbe con le linee architettoniche del centro storico. In realtà, a parte le fattezze decisamente inconsuete, il materiale di cui è fatto – il peperino, un tipo di tufo locale – ha caratteristiche molto simili alla pietra originaria dell’Isola di Pasqua, di origine anch’essa vulcanica.

A scolpirlo in questo materiale con asce e pietre taglienti sono stati nel 1987 undici indigeni maori della famiglia di Juan Atan Paoa, arrivati in Italia per promuovere il restauro delle numerose statue presenti a Rapa Nui (nome indigeno dell’isola) e invitati dall’amministrazione comunale di Vitorchiano nell’ambito della trasmissione tv “Alla ricerca dell’Arca”.

Qualche cenno sull’isola famosa per i suoi colossi di pietra. Intorno al IV secolo a. C. questa briciola di terra distante 3600 chilometri dalle coste del Cile venne colonizzata da popolazioni polinesiane provenienti da una delle isole Marchesi e mai più ripartite dalla nuova patria, divenuta in seguito, per l’eccessivo sviluppo demografico, sempre più angusta e avara di risorse. Fu probabilmente a causa del suo progressivo disboscamento, cui gli isolani vennero costretti per aprire nuovi spazi alle colture, che venne a mancare il legno necessario per costruire le grandi piroghe transoceaniche capaci di rompere il loro isolamento.

Prima però dell’inarrestabile declino sociale ed economico, dovuto allo sfruttamento indiscriminato delle risorse locali e alle lotte sanguinose fra clan, la civiltà pasquense toccò il suo apice fra l’XI e il XVI secolo: è l’epoca dei Moai, i monoliti mediante i quali la popolazione rendeva culto agli antenati. Nella fase critica che seguì, anche tale culto venne meno, unitamente all’autorità suprema del re; e al dio Tane si sostituì Make Make, divinità guerriera, che originò un’aristocrazia militare. Molti Moai incompiuti furono abbandonati presso le cave, anche per l’assenza di legname atto al trasporto; altri vennero abbattuti.

L’ultimo e più tragico capitolo della storia di Rapa Nui coincise con l’arrivo, nel XVIII secolo, dei vascelli europei. La rottura di un secolare isolamento e il contatto con gli occidentali finirono in effetti per provocare in soli 150 anni la distruzione di una intera civiltà: basti pensare che nel 1862, per reclutare mano d’opera per le loro miniere di guano, i peruviani deportarono buona parte degli isolani, compresi membri dell’aristocrazia e sacerdoti detentori delle antiche tradizioni. Di circa 1900, sopravvissero e riuscirono a ritornare in patria solo una quindicina, ma purtroppo con grave danno per i conterranei, fra i quali diffusero il germe del vaiolo. Alle epidemie seguirono lotte interne e carestie che finirono di decimare gli indigeni. Oggi quest’isola sperduta nell’Oceano Pacifico è raggiungibile in aereo da Santiago del Cile dai turisti attirati dai siti archeologici e dall’aura di mistero che circonda i Moai.

E proprio facendo leva su questo mistero, lo scrittore vitorchianese Raffaele D’Orazi ha pubblicato con l’Editrice Serena Il mistero del Moai, ispirato al primo colosso del genere presente in Italia (un altro, più piccolo, è stato realizzato nel 2015 a Chiuduno, in provincia di Bergamo, sempre da isolani di Rapa Nui, ospiti al festival “Lo Spirito del Pianeta”). Il romanzo, quasi un thrilling, fa riferimento a diversi eventi negativi verificatisi nel borgo in seguito al trasferimento del Moai dalla primitiva collocazione nel piazzale Umberto I in quella attuale. Secondo una leggenda maori, infatti, un Moai inaugurato con rito propiziatorio – come appunto quello di Vitorchiano – non può essere spostato senza causare sciagure.

Se i due Moai “italiani” sono opere moderne riproducenti lo stile degli esemplari antichi, esistono altrove alcuni originali provenienti dall’Isola di Pasqua: uno ad Amburgo nei pressi dell’arcichiesa di San Michele, due al British Museum di Londra e un altro ancora (solo la testa) al Musée du Quai Brainly di Parigi. A Rapa Nui ne rimangono circa 900, dei quali circa 400 si trovano nella cava di Rano-Raraku, 288 posizionati sugli ahu (aree cerimoniali situate nell’entroterra) e il resto sparsi in diversi siti dell’isola, tra la costa e là dove sorgeva un villaggio, di cui erano ritenuti custodi, oppure abbandonati lungo il tragitto verso un ahu. Tutti scolpiti nei vari tipi di roccia vulcanica locale: tufo lapillo, trachite bianca, scoria rossa e basalto. Purtroppo molti di essi si vanno inesorabilmente degradando a causa non solo degli agenti atmosferici ma anche dell’incuria umana, come la serie di Moai recentemente danneggiata da un incendio della vegetazione circostante.

Non per niente i maori venuti a Vitorchiano avevano dato prova della loro capacità di realizzare un perfetto Moai per tentare di sensibilizzare l’opinione pubblica al salvataggio dei simboli ancestrali della loro cultura.

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