Mirate al cuore, salvate il viso

Nel bicentenario della fucilazione di Gioacchino Murat a Pizzo Calabro, la cittadina si prepara a celebrare con particolare impegno l’evento a cui è legata in particolare la sua fama
La fucilazione di Gioacchino Murat dal libro di Pullè Patria esercito re

«"Amici – disse ai soldati che l’aspettavano –, voi sapete che sarò io a ordinare il fuoco; il cortile è troppo stretto perché possiate mirare giusto: mirate al cuore, salvate il viso”. E andò a mettersi a sei passi dai soldati, quasi addossato a un muro, e salì un po’ più in alto su uno scalino. […] Alla parola “fuoco”, solo tre colpi partirono. Murat restò in piedi. Tra i soldati intimoriti, sei non avevano sparato, tre avevano sparato sopra la sua testa.

 

«Fu allora che quel cuore di leone che faceva di Murat un semidio nelle battaglie si mostrò in tutta la sua terribile energia. Non un muscolo del suo viso si mosse. Non un solo movimento indicò il timore. Ogni uomo può avere il coraggio per morire una sola volta; lui, Murat, ne aveva per morire due volte.

 

«"Grazie, amici miei – disse –, grazie per il sentimento per cui m’avete risparmiato. Ma poiché bisognerà sempre finire là dove avete cominciato, ricominciamo e questa volta nessuna grazia, vi prego”. E ricominciò ad ordinare la carica con la stessa voce calma e sonora, guardando ad ogni ordine il ritratto della regina; infine la parola “fuoco” si fece sentire seguita da una denotazione e Murat cadde colpito da tre pallottole. Fu ucciso sul colpo. Una pallottola aveva trafitto il cuore».

 

È il resoconto di Alexandre Dumas sulla fine di Gioacchino Murat, il cognato di Napoleone fucilato il 13 ottobre 1815 a Pizzo Calabro, dov’era sbarcato con un pugno di seguaci nel vano tentativo di riconquistare il suo regno delle Due Sicilie, ritornato ai Borbone dopo Waterloo e il Congresso di Vienna. Resoconto fantasioso, com’è da aspettarsi da un romanziere come Dumas che gioca con la storia, reinventandola da par suo.

 

Nella realtà le cose andarono diversamente, come risulta dalle testimonianze di chi era presente ai fatti: leggenda romantica quella secondo cui Murat, dopo il sommario processo tenuto nel castello dov’era prigioniero, chiese e ottenne di comandare lui stesso il fuoco al plotone d’esecuzione, e leggenda quella della seconda scarica di fucileria dovuta al mancato effetto mortale della prima. Quanto all’ultima sua frase «Respectez le visage et visez au coeur», l’ex re pronunciò semplicemente: «Bravi soldati, coraggio, ecco tirate!» o qualcosa di simile.

 

Reali furono invece il coraggio e la dignità con cui Murat affrontò la morte; del resto egli l’aveva guardata in faccia senza fremere in tutte le campagne militari di Napoleone e per questa audacia temeraria era entrato nelle grazie del Bonaparte, che dopo averlo nominato maresciallo di Francia l’aveva fatto succedere nel 1808 al fratello Giuseppe sul trono di Napoli.

 

La tragica fine del figlio di un locandiere diventato re, ultimo atto della sua “campagna d’Italia”, viene riproposta ogni ottobre a Pizzo, la bella cittadina del golfo di Santa Eufemia arroccata scenograficamente su una rupe a strapiombo sul mare, con una rievocazione storica in costumi d’epoca che attira numerosissimo pubblico. Quest’anno poi ricorre il bicentenario della morte di Murat, celebrato da eventi culturali in diverse sedi, prime fra tutte Napoli con la mostra A passo di carica – e ad esso Pizzo si sta preparando con particolare impegno: tra l’8 e il 13 ottobre sono previsti un corteo storico per ricordare la visita di re Gioacchino alla città nel 25 maggio 1810, un gran galà reale e la rievocazione del suo sbarco, arresto, condanna e fucilazione, animati da attori in costume appartenenti a gruppi storici provenienti da tutta Italia.

 

Nell’attesa, “sbarco” anch’io (ma dal treno) a Pizzo, saturo di notizie su questa cittadina già in passato fiorente per l’industria legata la pesca del tonno: l’ultima nel 1963, dopo di che le antiche tonnare dovettero chiudere per la concorrenza dei moderni criteri di pesca.

 

Prima tappa al castello, oggi monumento nazionale, dove Murat concluse la sua avventurosa esistenza per volere di Ferdinando IV di Borbone. Nei diversi ambienti di questa fortezza, ampliata in epoca aragonese come difesa contro le scorrerie dei pirati saraceni, sono ricostruite abbastanza fedelmente scene che rappresentano la prigionia dell’ex re e di alcuni suoi soldati, il processo sommario, la cella in cui egli scrisse una commovente lettera alla moglie Carolina e ai quattro figli, e l’ultima sua confessione.

 

Oltre ad una collezione di armi d’epoca (fucili, sciabole, pistole, colubrine e cannoni), tra i cimeli murattiani spiccano il busto marmoreo realizzato da Jean J. Catex e le riproduzioni di famosi ritratti di Gioacchino e dei familiari. Un po’ dovunque occhieggia la sua figura aitante, marziale e riccioluta in sfolgoranti divise (era proverbiale la sua vanità al riguardo: perfino al momento dello sbarco ne indossava una più adatta ad una festa di corte che ad una spedizione militare).

 

Pur con i suoi limiti, nel complesso Murat si dimostrò un buon sovrano per le tante riforme sociali, e sincero fu il suo attaccamento al popolo, al punto da entrare in contrasto con stesso Napoleone, che considerava il regno delle Due Sicilie satellite dell’impero francese. Né si può dimenticare l’ultimo suo sogno di una “campagna d’Italia” lanciata col Proclama di Rimini, che la storia registra come atto fondativo del nostro Risorgimento.

 

Con questi pensieri termina la mia visita al castello. Riattraversata piazza della Repubblica affollata di tavolini dei bar produttori dei rinomati gelati locali, raggiungo la cattedrale dedicata alla Vergine e a san Giorgio. Al centro della navata, la terza lapide partendo dall’ingresso sigilla la fossa comune dove, dopo l’esecuzione, venne calato il feretro contenente la salma di Murat. E pensare che proprio lui aveva finanziato i lavori per riparare questa stessa chiesa gravemente danneggiata da un terremoto!

 

Sono ora in corso ricerche per recuperare i suoi resti fra i numerosissimi che vi si sono accumulati nel corso del tempo, specie dopo il colera del 1837. Se gli esami dovessero confermare l’identificazione, sarebbe un risultato di forte impatto per Pizzo in questo anniversario che celebra uno sfortunato protagonista di quel “decennio francese” che, pur tra le luci e le ombre di ogni dominazione, ha avuto il merito di portare un’aria nuova negli Stati italiani, dando un colpo durissimo al feudalesimo e avviando una intensa stagione di riforme.

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