Mio zio? È papa Paolo VI.

I ricordi dell'ultima nipote di Giovanni Battista Montini. Per la prima volta, in vista della visita di Benedetto XVI a Brescia, domenica 8 novembre, ha accettato di aprire lo scrigno segreto del cuore e di raccontare un papa visto da vicino. Ne esce fuori un ritratto insolito di un papa umano, affettuoso e per niente mesto. Città nuova ringrazia di cuore Chiara Montini Matricardi per avere autorizzato, in esclusiva, la pubblicazione del testo della sua testimonianza letta il 21 ottobre a Brescia in occasione di un Convegno su Paolo VI.
Paolo VI

«Ringrazio chi mi ha invitato a questo incontro e incoraggiandomi, ha chiesto una testimonianza di quello che è stato e ha significato nella mia vita Paolo VI, o meglio lo zio Giovanni Battista Montini, lo zio don Battista come noi semplicemente lo chiamavamo. Insisto sull’incoraggiamento avuto perché la mia natura e il mio stile di vita sono irriducibilmente riservati e schivi, quindi parlare dello zio Papa non mi riesce facile e in pubblico ancora meno. Ma oggi vorrei condividere con tutti voi alcuni aspetti privati, momenti di intimità familiare e domestica che per un incredibile privilegio io, Chiara, ho avuto la gioia e l’eccezionalità di vivere. Inizio con un sintetico albero genealogico. I miei nonni paterni, Giorgio Montini e Giuditta Alghisi sposatisi il 1 agosto 1895 nella chiesa di San Nazzaro e Celso, ebbero 3 figli : Lodovico nato nel 1896, Giovanni Battista nel 1897 e Francesco nel 1900. Lodovico ebbe 7 figli, il primo nacque nel 1925 e l’ultimo nel 1941. Francesco, mio padre, si sposò molto avanti negli anni, (nel 1951), ed ebbe 2 figlie: Elisabetta nel 1953 e Chiara nel 1954, nata il 27 settembre. Lo zio era nato il 26 ed il 30 settembre, proprio come lui, venni da lui battezzata e nel 1961, sempre il 30 settembre, m’impartì la Comunione e la Cresima.

Mia sorella Elisabetta ricevette dallo zio la prima Comunione il 31 maggio 1960: lo zio aveva celebrato la sua prima Messa il 30 maggio 1920. Queste piccole coincidenze, questa vicinanza di date hanno sempre avuto per me un grande valore. Io e mia sorella eravamo dunque le nipotine le bambine come lo zio era solito chiamarci, quelle a cui lui, senza nulla togliere agli altri nipoti, fin da quando fu nominato arcivescovo di Milano riservò, proprio perché più piccole, affetto paterno, attenzioni dolcissime e grande premura».

 

I luoghi che videro il passaggio dello zio.

 

«Lo zio era legatissimo ai due fratelli e questo legame lo portava a tornare a Brescia per riunirsi alla famiglia nella vecchia casa di via delle Grazie. Ricordo una data, il Lunedì dell’Angelo, che per tanti anni ha segnato una di queste ricorrenze familiari intorno alla grande tavola presso la casa dello zio Lodovico. Eravamo in tanti, più generazioni accolte e festanti per l’arrivo dello zio da Milano. Quando noi ci trasferimmo a Bovezzo, a volte la domenica, lo zio accompagnato dai suoi segretari e da alcuni amici con la semplicità che lo caratterizzava, riusciva a regalarci alcune ore discorrendo affettuosamente e partecipando alla nostra vita familiare. L’antico eremo di San Bernardo sopra Gussago, chiamato i Camaldoli, vide più volte ospite lo zio nei mesi estivi. In questo luogo suggestivo e fuori dal mondo trascorreva lunghi periodi mons. Domenico Menna, già vescovo di Mantova e insegnante di diritto canonico presso il Seminario di Brescia, a cui lo zio era legato spiritualmente e affettivamente.

Vicino alla sua abitazione, nella foresteria, la mia famiglia passava le vacanze estive. Qui i due fratelli si ritrovavano e si creava un’intimità domestica riprendendo discorsi, conversazioni e confidenze interrotte a causa sia degli impegni “milanesi”dello zio che della professione medica del papà. Ricordo i giorni sereni a Melchtal, piccolo paese svizzero non lontano dall’Abbazia benedettina di Engelberg, dove eravamo soliti fare un periodo di vacanza. Lo zio era particolarmente sensibile alla spiritualità benedettina e presso questi monaci trovò sempre ospitalità premurosa e gentile. In queste occasioni lui era per noi lo zio, non l’arcivescovo, il cardinale di Milano. Pranzavamo insieme, ci faceva giocare, andavamo a visitare abbazie, eremi, ospizi alpini e grandi vette innevate; a volte percorrendo stretti e ripidi sentieri la sua mano stringeva la mia, dandomi sicurezza e forza che mi pare avvertire ancora oggi.

L’arcivescovado di Milano ci vide spesso ospiti con i genitori alla tavola dello zio. Ci sentivamo bene accolte, forse un po’ intimidite all’inizio, ma l’affetto, il calore e la cordialità profusi spianavano i nostri imbarazzi. Per noi bambine c’erano sempre piccoli doni, a volte del tutto inusuali come un agnellino bianco o una coppia di tortore… Più grandi ci regalò una macchina da scrivere, la famosa lettera 22, e una radio-registratore innovativa per quegli anni… Quando il 21 giugno 1963 lo zio fu eletto Papa anche la nostra vita si trasformò e sentimmo che sarebbero cambiate molte cose, fu come se la semplicità e la naturalezza che avevano segnato i rapporti con lui venissero meno. “Un Papa non appartiene a nessuno”. E gli incontri si diradarono anche a causa della salute precaria del papà, ma non le telefonate che i due fratelli continuarono a scambiarsi. I problemi scottanti e gravi che il papa e la Chiesa dovettero vivere in quegli anni coinvolsero naturalmente anche noi: Francesco soffriva con il fratello don Battista. Sapevamo che la solitudine nelle scelte più ardue era sostenuta dalla fede e dalla parole di Cristo: “Se questo è impossibile all’uomo, tutto è possibile a Dio”. In occasione della festa della natività della Madonna, l’8 settembre, tanto cara alla nostra famiglia, eravamo attesi a Castelgandolfo. Qui si ricreava quella intimità antica e familiare tra lo zio e il papà. Il primo incontro era molto presto la mattina: alle 7 partecipavamo alla Messa celebrata dallo zio nella cappella privata: era una semplice funzione in cui il raccoglimento raggiungeva momenti di contemplazione. Il silenzio seguiva la parola e tutto era lode e preghiera. Ciò che in quei momenti mi illuminava era che il papa, in quanto tale, cessava di esistere come individuo. Attraverso il suo essere si mostrava il Cristo. E quando giunse l’ora della sua morte, il mistero volle avvenisse il giorno della Trasfigurazione.

Ricordo i due fratelli seduti vicini, così simili nei tratti e nei gesti, ascoltarsi reciprocamente con attenzione calma e profonda, passeggiare nei giardini della Villa Pontificia, parlare o lasciare che il silenzio li avvolgesse complice più di tante parole. Era per me un esempio luminoso di grandissimo amore fraterno, di sintonia di pensiero, di meditazioni elevate. Rivedo la sua figura alta e sottile, i suoi occhi grigi, azzurri, chiari: lo sguardo non si limitava a guardarvi ma penetrava nei recessi del cuore; le sopracciglia accentuate, le labbra fini e delicate sceglievano con cura e lentamente le parole, la fronte distesa e senza rughe: il suo viso emanava calma e pace profonda. Il suo passo era lieve e discreto ma teso in avanti ad accogliere con le braccia aperte il visitatore. Da lui si diffondevano semplicità, nobiltà ed eleganza: di cuore e di modi: elegante come un diplomatico, ma premuroso come un umile parroco.

 

Le frequentazioni.

 

Senza quasi rendermene conto avvicinai persone eccezionali, alcune tra le più rappresentative del pensiero cattolico contemporaneo. Fra tutti padre Giulio Bevilacqua,

amatissimo maestro, padre Paolo Caresana, mons. Sergio Pignedoli, il card. Giovanni Benelli, il card. Giovanni Colombo, Emilio Bonomelli, direttore della Villa Pontificia di Castelgandolfo, lo scultore Enrico Manfrini, padre Ottorino Marcolini, mons. Giuseppe Almici, padre Carlo Manziana.  Ricordo con grande ammirazione Jean Guitton, che nei suoi “Dialoghi” fece rivivere Paolo VI, ne sondò la profondità dello spirito e ci lasciò un ritratto intimo allo stesso tempo dolente e gioioso “di un’anima e di un uomo nel lavoro, in certi ricordi, nella spirale delle riflessioni, nelle angosce, nelle gioie, nella sua speranza totale”.

A conclusione di questa mia breve testimonianza desidero sottolineare gli insegnamenti ricevuti per ricordare e celebrare una volta di più la grandezza di Paolo VI. L’amore incondizionato e la completa dedizione a Cristo e alla Chiesa nella luce abbagliante e protettiva di Maria.  La finezza nei modi, la sensibilità e la cordialità nell’avvicinarsi all’interlocutore, chiunque esso fosse, espressione del suo desiderio di avere  “un cuore grande, capace di comprendere gli altri cuori”. La sua cultura, la riservatezza, la discrezione e l’umiltà quali peculiarità della sua persona. Il grande valore dell’amicizia, trovò in padre Bevilacqua la manifestazione più alta e più pura. Ognuno onorava l’altro e rispettava nell’altro una vera superiorità. Ricordo bene l’aria festosa, l’allegria e l’intraprendenza di padre Bevilacqua che come un fiume in piena inondava e coinvolgeva chi gli stava vicino. Gli anni del pontificato rivelarono il coraggio nell’accettare il confronto con la modernità, la generosità nel donarsi e nel sacrificarsi confermando quanto aveva in passato affermato: “per fare il proprio dovere bisogna fare qualcosa di più del proprio dovere”.

Dopo la morte del papà ne 1971 fu tangibile la sua partecipazione di padre ai momenti significativi della nostra crescita, incoraggiandoci con la sua vigile e affettuosa presenza nelle scelte degli studi e ricordandoci sempre che nella carità ogni dialogo è possibile.

Sono cresciuta in una famiglia eccezionale: senza quasi rendermene conto assorbii giorno per giorno nel profondo del cuore grazie, doni e insegnamenti esemplari ed ebbi ad ogni incontro la certezza di un sostegno, sentendomi protetta in un abbraccio benedicente, di cui sempre sarò grata allo zio».

 

 

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