Mio figlio

Raiuno, ore 20,45, 9-10/1. Il commissario Vivaldi (Lando Buzzanca), pragmatico e tutto d’un pezzo, presta servizio a Trieste. Con lui lavora l’unico figlio Stefano (Giovanni Scifoni), addetto al controllo clandestini: i due si incontrano a casa tutte le sere. Nel corso delle indagini su un misterioso assassinio di una ragazza, comincia a emergere il nome di Stefano, che ha taciuto la propria presenza al party in cui è avvenuto l’omicidio, per nascondere la propria omosessualità, nota solo alla madre (Caterina Vertova) separata dal marito. Ma le indagini proseguono, Stefano risulta amico del sospetto omicida, un ragazzo austriaco, e finalmente è costretto a rivelare al padre di essere gay, pur proclamando l’innocenza dell’amico. Per il commissario è un colpo, non sa darsi pace, si domanda in cosa abbia sbagliato. L’ambiente intorno, fra l’ironico e il sorpreso, non aiuta. Alla fine, il commissario si decide ad accompagnare il figlio dall’amico austriaco per riportarlo a Trieste a scagionarsi. Sarà un viaggio di reciproca conoscenza, di inizio di un rapporto sincero. Nel corso di una sparatoria Stefano resta ferito, per salvare due passanti e il padre. Mentre il ragazzo è in coma, il padre comincia a comprendere di dover rispettare il figlio così com’è. Nel frattempo le indagini scagionano Stefano e l’amico. Il dolore della vicenda ha cambiato il cuore del commissario, che decide di lasciare libero il figlio e di riprendere il rapporto, mai chiuso, con la moglie. Come si nota, un giallo poliziesco dalle tinte psicologiche che, ovviamente, obbedisce alle leggi – talvolta discutibili – della fiction. Ma al di là del genere, il prodotto presenta una sua novità, incentrato com’è – e lo fa intendere il titolo – sulla figura, oggi in secondo piano, del padre. Buzzanca sorprende per aver dato risvolti ironici e commossi ad un personaggio virile ma anche indifeso di fronte ad una società in movimento, con intensa partecipazione personale; come la madre, interpretata da Caterina Vertova con tratti di sofferta interiorità, quasi di finezza psicologica. Nel cast, spicca il figlio Stefano cui Giovanni Scifoni conferisce credibilità, grazie ad una recitazione concentrata, fermata soprattutto sull’intensità dello sguardo. Giustamente il regista Luciano Odorisio ha affermato non essere questo un film sull’omosessualità – trattata peraltro senza scivoloni nel patetico o nell’ovvio – ma sulla famiglia, sui sentimenti che si agitano all’interno di una convivenza dalle mille problematiche, alle quali la comprensione reciproca e lo sforzo di saper ricominciare conferisce la serenità del ritrovarsi e dell’accettarsi. È forse questo il merito di una fiction che, nei suoi ritmi – più d’effetto nel primo episodio e più introspettivi nel secondo – e nei suoi limiti, ha la capacità di affrontare i problemi del momento.

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