Mille progetti per il futuro

Lavoravo in ospedale come infermiera professionale. Avevo mille progetti per il mio futuro. Una voglia matta di conoscere, scoprire, imparare e aggiornarmi mi ha sempre spinta a interessarmi di “tutto e di più”: libri, fotografia, montagna, viaggi, musica, amicizie” Capita però, che un giorno, in seguito alla somministrazione di un farmaco per un problema che doveva essere di passaggio, ho avuto delle complicazioni. In pochi minuti mi sono trovata dall’altra parte, in pigiama anziché in divisa, assistita anziché assistente. Da lì, una serie ininterrotta di ricoveri, esami, responsi su e giù per l’Italia e anche all’estero, in un caleidoscopio multicolore di medici, ospedali, ambulatori, visite, ore interminabili d’attesa in sale d’aspetto a guardare muri tappezzati d’attestati, quadri e finestre attraverso le quali il paesaggio sembrava sempre uguale mentre i pensieri andavano a briglia sciolta nel mio cervello. Arriva la diagnosi, e da quel momento lentamente ma progressivamente la mia vita ha cominciato a cambiare. Sono iniziati i dolori, accompagnati da una stanchezza che non mi lasciava mai. Pur tuttavia cercavo di fare una vita normale, nascondendo, fino a quando è stato possibile, quello che mi stava succedendo. Suonavo la chitarra e la prima cosa che non più potuto fare è stata proprio quella: le mani mi facevano troppo male. Ricordo quando l’ho deposta per l’ultima volta nel fodero: piangevo ed intuivo che quella era solo la prima di molte altre rinunce che avrei trovato andando avanti. E in effetti è stato così. Col passare degli anni la malattia non mi ha dato tregua lasciando dietro di sé il segno del suo passaggio sul mio corpo. Passo notti lunghissime in cui alle volte non mi è concesso nemmeno di stare sdraiata. Ogni tanto scrivo qualcosa di quello che sto vivendo: mi aiuta a svuotare l’anima e, successivamente a riflettere nel rileggerne le frasi. Ve ne cito una: “Oggi mi sento come se dovessi contenere tutta la solitudine del mondo”. Nonostante questi momenti, questi periodi di buio, questo corpo che quasi non riconosco più come il mio, dentro di me la vita sembra esplodere. Apprezzo ogni attimo, scoprendo sempre più profondamente il valore del tempo. Non posso permettermi di dire: “Lo farò domani”, ma piuttosto: “Oggi posso… domani non so” quindi è meglio vivere intensamente l’oggi”. In questi anni ho ascoltato centinaia di persone, soprattutto al telefono. Ho incontrato molte storie, molte vite diversissime tra loro. Qualche anno fa, da quando sono pressoché bloccata in casa, mi è stata offerta la possibilità di imparare ad usare il computer frequentando dei corsi appositamente dedicati a persone disabili. Ho iniziato a conoscere persone anche attraverso questo mezzo. Una volta mi è capitato di conoscere un ragazzo con una disabilità gravissima dalla nascita. Giovane, intelligentissimo e con tutte le normali aspettative e desideri che un ragazzo della sua età può avere. Ma” c’era la disabilità, e tutto il mondo contro” Era arrivato alla saturazione. Ci siamo dati appuntamento su una chat per parlarne. Era disperato. L’ho ascoltato per ore, per giorni, settimane. Poi, mesi dopo, mi ha confidato: “Mi hai tirato fuori da un momento bruttissimo della mia vita. Avevo deciso di farla finita. Ti ringrazio perché non credevo che ci potesse essere a questo mondo qualcosa che si chiama amicizia vera. Con te l’ho scoperto”. Il dolore è silenzio. È qualcosa che non può, non deve avere fretta. È il momento del raccoglimento, della riflessione, della condivisione profonda, senza tempo. Richiede uno spazio esclusivo e massimo rispetto. Nel dolore le maschere cadono. Solo attraverso il dolore si arriva all’essenziale. Così come io ho ascoltato per anni, anch’io a mia volta sono stata ascoltata, amata, consolata nei miei momenti più crudi da alcune persone. Una di queste è una donna, speciale non solo per me ma anche per tanti altri. La conoscevo da prima della malattia, vivevo da anni la sua spiritualità, la spiritualità dell’unità. È lei che mi ha insegnato a dare un nome al mio dolore, a credere, a sperare nonostante tutto, a non mollare, a condividere con altri questa mia vita ed a trarne la forza per andare avanti. È Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei focolari. Con lei ho avuto, e tuttora ho, uno scambio epistolare abbastanza frequente. Le sue parole sono sempre per me un aiuto fortissimo, nonostante l’apparente ineluttabilità della situazione. Posso sinceramente affermare che se non l’avessi incontrata sulla mia strada, non so davvero con questa malattia malattia se ce l’avrei fatta a sopravvivere senza disperazione. Fra l’altro mi ha scritto: “Chiunque reagirebbe come te e si domanderebbe il perché di tanto dolore. Non c’è che una risposta, Chiara! Dio ti ama coll’amore di predilezione che ha avuto per suo Figlio”. E ancora: “Se qualche volta il dolore è troppo acuto e sembra toglierti la capacità di amare e di offrire, non ti preoccupare: anche Gesù sulla croce ha gridato; anche in quei momenti, quindi sei in piena unità con lui”. In un’altra occasione: “Non sottovalutare il tuo “vestito” (riferendosi al mio corpo) e fai tutta la tua parte per conservarlo il meglio possibile finché Dio vorrà”. Qualche tempo fa ho scritto un pensiero: “Noi non ci apparteniamo, quindi non possiamo decidere e realizzare sempre quello che ci prefissiamo: usare il nostro corpo, la nostra mente, il nostro cuore come se non fossero nostri. È una strada in salita, durissima se si pensa di viverla da soli, ma insieme si può farcela”. Io, agli occhi del mondo, sono una perdente. Ma agli occhi di Dio? raccolto da Pietro Parmense

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