Michelangelo inquieto

Credete che alla perfezione dell’arte debba corrispondere quella della vita? Errore, anzi doppio errore. Prima di tutto perché anche i santi hanno i loro difetti, e poi perché proprio gli artisti (veri) faticano molto più degli altri a tenere insieme le miserie umane, che condividono con tutti, con i laceranti slanci del loro genio. Perciò, ancor prima di incominciare a leggere questa nuova interessante biografia di Michelangelo – l’autore, Forcellino, nonché storico, è anche e soprattutto un tecnico esperto che ha restaurato il Mosè, conosce dunque l’arte dall’interno – mi disturbavano quei rilievi scandalizzati (Michelangelo ingrato, Michelangelo avaro), come se chi ha scritto ottantenne Né pinger né scolpir fia più che quieti/1’animo volto a quell’amor divino/ ch’aperse, a prender noi, ‘n croce le braccia, potesse essere, oltre che un peccatore a volte anche misero, un mediocre, che non era. E infatti il suo nuovo biografo così lo disegna, artista divino ma uomo sofferente, e per la propria autocoscienza tormentata il più moderno degli artisti mai vissuti. A riprova di quanto dico sui meriti dell’estensore storico-tecnico di questa biografia, ecco un passo esemplare relativo all’adolescenziale e già geniale Battaglia tra Centauri e Lapiti sbozzata nei giardini medicei di Lorenzo il Magnifico: (…) la capacità di usare la gradina o lo scalpello fino alla pelle del marmo stesso, laddove gli altri artisti vi si avvicinavano prudentemente con la raspa. Il rischio della tecnica michelangiolesca è quello di rovinare con un colpo troppo forte la superficie finale della figura, perché la punta dello strumento ne oltrepassa il limite. Ma questo non gli succede mai, almeno per quanto ne sappiamo. Conosciamo invece il vantaggio di questa spericolatissima tecnica: la possibilità di un brusco cambiamento, di un rapidissimo passaggio dal concavo al convesso, laddove la raspa degli artisti precedenti irrigidiva le forme e intontiva il disegno eliminando la vibrazione che rende palpitante il marmo di Michelangelo. E non posso qui dare conto dell’ottima lettura tecnico-estetica della celeberrima Pietà di San Pietro (pp. 66-70). Insieme all’attenzione sul virtuosismo ineguagliabile che connota l’ancor giovane Michelangelo, mi sembra felicissimo l’insistere che fa l’autore, per questa e altre opere, sul controllo sovrannaturale dei sentimenti che è una delle cifre assolute dell’arte del Buonarroti. Dunque Michelangelo era avaro, sì, fino all’ossessione, con sé stesso anzitutto, ed era diffidente e collerico e spesso incapace di giudizi obbiettivi, a volte ingrato, e attraversato da altre passioni che molti suoi contemporanei nutrivano e ben più rozzamente di lui. Ma vorrei far notare all’autore che, se è vero che Michelangelo non si sposò (Io ho moglie e confermò: Voglia sfrenata el senso è, non amore,/che l’alma uccide. Cosicché risulta molto riduttiva l’interpretazione (p. 380) dell’alto pensiero di Michelangelo sulla morte. La biografia procede fornendoci utili informazioni sulla difficilissima tecnica dell’affresco che occupò Michelangelo per molti anni nella Cappella Sistina (ma non è vero che l’artista fosse mosso all’opera prevalentemente da ingordigia), e sull’umanesimo teologico che recuperava la grande cultura pagana a vigilia dell’evento biblico-cristiano; ne risulta nel complesso una lettura molto stimolante della Volta. Queste meraviglie però si manifestano tra gli orrori della storia: l’orrendo sacco di Prato voluto dal papa, con stragi e stupri inenarrabili, e poi l’altrettanto orrendo sacco di Roma, voluto dal cristianissimo imperatore, sui quali Michelangelo, oltretutto fiero repubblicano antimediceo, non tacque pur dovendosi piegare ai tempi. E così tutta la lunga vita dell’artista, fino al grandioso Giudizio della Sistina, che segna l’apocalittica fine del Rinascimento, e oltre, trascorse tra angustie, problemi familiari e lavorativi d’ogni genere, ma in lotta, soprattutto con sé stessa, con i propri fantasmi e miserie e tormenti e confessioni (Carico d’anni e di peccati pieno), fino alla morte discesa come dura e pietosa, purificazione ultima, che per un artista e di quella levatura unica, è sapersi e riconoscersi un misero tra gli altri, oggetto della grazia di Dio anche attraverso le sue stesse opere – basta ricordare la sublime Pietà Rondanini lavorata fino a poche ore dalla morte. E proprio l’incolmabile divario tra miseria della vita e grandezza dell’arte rende ancora una volta ragione, pascalianamente, dell’inesauribile mistero umano. Il libro di Forcellino è una miniera di notizie tecniche ed estetiche affascinanti sull’originalità delle scelte michelangiolesche – particolarmente illuminanti quelle sugli affreschi della Cappella Paolina -, e di notizie biografiche, ma non è sempre irreprensibile sul piano storico (ad esempio, Adriano VI non era avaro, era un asceta contrario allo scialo rinascimentale; il cardinale Reginald Pole, Vittoria Colonna e Michelangelo stesso, pur ansiosi di un radicale rinnovamento spirituale della chiesa, non furono filo-luterani), senza che ciò tolga valore all’insieme dell’opera.

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