Mia sorella Chiara Lubich

Riproponiamo il racconto di Gino Lubich, fratello della fondatrice del Movimento dei Focolari, Chiara, tratto dal  libro curato da Oreste Paliotti e Bennie Callebaut per Città nuova
«Se dovessi tentare una definizione di Gino, direi che era un uomo con una straordinaria ricchezza di umanità che emanava e comunicava, anche senza parole, e che attirava la simpatia e la fiducia: e molti, specie quelli che erano in difficoltà o in crisi, si rivolgevano a lui. Era un puro di cuore, possedeva una rigorosa onestà intellettuale». Così scriveva nel 1993 l’allora direttore di Città nuova Guglielmo Boselli nell’articolo commemorativo per la morte di Gino, fratello di Chiara Lubich, fondatrice dei Focolari. Gino Lubich, infatti, era stato uno dei redattori della rivista fin dagli anni Cinquanta.
Una vita, la sua, a dir poco avventurosa. Partigiano durante la seconda guerra mondiale, aveva pagato a caro prezzo la sua scelta con la prigionia. Per anni lavorò come giornalista a L’Unità di Milano, ed ebbe come maestro di giornalismo Davide Lajolo. Nel 1956, i fatti di Ungheria lo posero di fronte a una scelta dolorosa: quella di lasciare il partito comunista, di cui era stato segretario a Trento. Seppe però mantenere grande rispetto, apertura e rapporti sinceri verso i suoi ex compagni. Morì il 3 settembre del 1993.
Ma qual era il rapporto tra Gino e Chiara? Il nuovo libro di Città nuova, Chiara mia sorella. Intervista a Gino Lubich, nato dalla fusione di tre conversazioni tenute fra fine anni Ottanta e inizio Novanta con il giornalista de L’unità, è un riaffiorare di racconti e ricordi, e contiene anche testimonianze di Chiara su Gino e l’articolo commemorativo sopra citato.
Di seguito riportiamo alcuni stralci tratti dal libro in cui si ripercorrono, attraverso le parole di Gino, l’infanzia e il 2 settembre 1943, quando iniziarono i bombardamenti a Trento.
Gino Lubich
Ricordi qualcosa dei primissimi anni di Chiara?
«Di lei ho ricordi estremamente precoci. Per esempio quel 22 gennaio 1920, io avevo due anni, ma vi saprei dire minuto per minuto quello che successe, come la vidi appena nata. Abitavamo in una casa che da via Prepositura si affacciava su piazza Santa Maria Maggiore, al terzo piano di un appartamentino formato da una cucina, da una cameretta lunga e dalla camera da letto dei genitori. E lei nacque proprio nella cameretta lunga, in un periodo ancora abbastanza sopportabile economicamente».
Ma dicci ora del rapporto tra voi due.
«Essendo i più grandi, eravamo legatissimi. Difatti mia mamma e mio papà, quando ci raccontavano di noi piccoli che andavamo in montagna per qualche passeggiata, ricordavano che eravamo sempre davanti a loro, io e lei eternamente per mano. Ma parlavamo poco. Lei soprat­tutto era piuttosto taciturna, ma non musona, anzi sempre fresca e allegra: fra noi avevamo degli scherzi particolari, ci facevamo delle facce strane, sai come fanno i bambini. Nel frattempo erano nate le altre due sorelle. A casa era senz’altro la più buona di tutti noi, che eravamo molto vivaci».
E arriviamo al 2 settembre 1943, quando ci fu il primo terribile bombardamento a Trento…
«Sì, e a piazza Santa Maria maggiore colpirono la casa dove eravamo nati: arrivai tra i primi con un camioncino a cercar feriti. Prima non avevano mai bombardato la città, in quanto era la ferrovia ad esser presa di mira. Ogni volta che bombardavano, Chiara mi veniva a cercare. E anche quel 13 maggio del 1944, quando tra l’altro venne colpito l’ospedale Santa Chiara. Lì io, con un altro studente di medicina, un tedesco, ero andato sulla torretta a vedere l’arrivo degli aerei. Ci fu uno scrollone e ci trovammo giù per le scale tutte rovinate, illesi sopra dei materassi. Quando ci rialzammo, trovammo un flagello spaventoso e da tutte le parti morti da raccogliere, feriti da soccorrere».
«Ad un certo punto mi sentii battere sulla spalla: era Chiara, venuta con una sua amica. Per la gioia di vedermi incolume, mi abbracciò nonostante fossi tutto sporco di sangue. Quando accennai al reparto delle malattie veneree, dove erano ricoverate le prostitute, disse: «Portami a vedere». L’impressione fu tremenda: erano l’una sull’altra, immerse in un lago di sangue, fotografate nella loro condizione: ben vestite e imbellettate com’erano, sembravano bambole di cera dipinta, dei fantocci, non dei morti. E in quel frangente lei mi aiutò a tirar via quei cadaveri, che a differenza degli altri non erano bianchi ma avevano una maschera di trucco».
Poi vi perdeste di vista…
«Al momento “magico” della nascita del focolare io non c’ero perché avevamo preso due strade diverse: dopo il bombardamento del 13 maggio 1944, lei rimase in città; mentre io dopo l’8 settembre 1943 e l’occupazione tedesca di Trento me ne ero andato a organizzare la resistenza nel Trentino e nel Veneto. L’8 luglio del ’44 venni arrestato a Pergine dalle SS e spedito a Bolzano, in una celletta sei metri sotto terra, a cui si accedeva per una botola. E lì, prima del processo (il 2 agosto), mi venne consegnato un pacco da una che era stata mia infermiera: l’aveva portato Duccia Calderari, una signorina che io conoscevo bene perché era partigiana come me… Da Duccia, probabilmente, Chiara aveva saputo della mia cattura e, attraverso i giornali, del processo.
«E proprio attraverso lei mi aveva fatto arrivare questo pacco: conteneva un pigiama, un paio di fazzoletti e robe del genere; in più c’era un dattiloscritto, accompagnato da poche righe: «Tanti saluti da tua sorella, che ti manda queste note». Cercai di leggerlo, ma facevo una fatica tremenda perché la mia cella non aveva finestre e l’unica fonte di luce era una lampadina fioca fioca messa in alto (per questo, penso, mi si è rovinata la vista). Solo quando venni trasferito in un’altra cella con due altri compagni, riuscii a leggere e rimasi trasecolato. Erano esperienze di Vangelo vissuto, fra l’altro scritte molto bene, sullo stile dei Fioretti di san Francesco. Fu allora che intuii l’esistenza di un gruppo attorno a Chiara perché parlavano di quelle che poi sarebbero state le prime focolarine. Pensai: se sono così, sono matte! Erano cose talmente fuori del mio mondo, fatto di asprezze e di attivismo, che c’era un abisso tra quello che vivevo io e quello che vivevano loro. Ma al tempo stesso mi fecero un’impressione bellissima, ne ero affascinato.
«… Quando venni liberato (alla fine della guerra) e mi fu possibile ritornare Trento, non trovai più la mia casa in via Goccia d’Oro: era stata rasa al suolo. Per giorni e giorni cercai chi potesse indicarmi dove erano finiti i miei, finché qualcuno mi disse: «Guarda che sono sfollati in montagna, a Centa». Una volta raggiunto il posto, che era piuttosto lontano, trovai il papà, la mamma e le sorelle ospiti presso dei contadini, non trovai però Chiara: era a Trento – mi raccontarono –, stava bene ed abitava insieme ad alcune amiche in piazza Cappuccini. Ogni tanto anche loro scendevano giù a trovarla»
Quando riuscisti a rivederla?
«La sera stessa tornai a Trento e il giorno dopo bussai alla porta di quella casetta (allora quasi una baracca di due stanzette più una cucinetta, mentre adesso è una palazzina in paragone) e sentii una voce d’uomo: «Avanti!». Aprii la porta e nella cucinetta vidi un giovane in cima ad una scaletta di legno appoggiata al muro davanti alla finestra, che armeggiava con dei fili della luce: «Senti, mi son el Gino. Ela chi me sorela?». «Ah, Gino!» e saltò giù dalla scaletta. Era Marco Tecilla».
(tratto da Chiara mia sorella. Intervista a Gino Lubich, Città nuova 2011)

 

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