Mi si è ristretto il paese

Nel 2030, la popolazione italiana sarà diminuita, rispetto ad oggi, di 8 milioni di persone. A meno che non arrivi gente da fuori. Entro il 2025, gli italiani tra i 20 e i 40 anni – ovvero la fascia di cittadini più creativa, produttiva e aperta alle novità e al futuro – scenderà dagli attuali 17 milioni a 11 milioni. La componente più giovane (0-14 anni) scenderà entro il 2030 dall’attuale 14,4 all’11,6 per cento. Nel giro dei prossimi 20 anni, le persone sopra i 65 anni saliranno dal 27 al 37 per cento rispetto al totale della popolazione attiva. Se l’attuale tasso di occupazione rimarrà stabile, da ora al 2025 avremo perso 2 milioni di posti di lavoro. Fermiamoci qui. Ce n’è a sufficienza per capire l’entità del fenomeno in corso. Eppure, l’argomento è quasi tabù. Tra persone educate non è opportuno parlare della crisi demografica. Tutt’al più, ci si limita a prendere atto della tendenza in corso. Ma è sconveniente esprimere commenti o, peggio ancora, ipotizzare misure risolutive. La denatalità continua ad essere considerata dalla mentalità prevalente come un tratto emblematico di una società avanzata. Cosicché la materia resta relegata alla cerchia degli specialisti. Cui dare il minimo rilievo mediatico possibile. Poi, succede il patatrac. Arriva la grave crisi economica in cui ci dibattiamo, il paese colleziona sconfitte sul piano della competitività internazionale (ma pure in Formula Uno e nel calcio) e sono messi a nudo i problemi strutturali. Uno dei quali è: sempre meno giovani, sempre più anziani (pur con tutto il doveroso rispetto e la riconoscenza che vanno a questi ultimi). Per i demografi, gli inascoltati esperti del ramo, siamo ormai ad una vera emergenza nazionale. Gli economisti più attenti hanno di nuovo fatto presente che il peso economico dell’invecchiamento della popolazione rischia di rovinarci tutti. Il resto lo lasciano intendere, perché è materia di conflitto politico. Che significa: o favoriamo in tempi brevi la nascita di tanti italiani o dobbiamo aprire le porte ad un maggior numero di famiglie d’immigrati. Altrimenti salta l’attuale sistema previdenziale. C’è un declino demografico inquietante su cui riflettiamo poco, ragioniamo con difficoltà e cerchiamo di accantonarlo in fretta, dichiara con onestà Savino Pezzotta, segretario generale della Cisl. Il motivo è p r e s t o detto. Obbliga anche noi del sindacato a cambiare noi stessi. E questo crea sempre una grande paura. Manifestano preoccupazione anche i giovani industriali. Annamaria Artoni ne è stata presidente sino a due mesi fa: L’Italia è una piramide rovesciata, con gli anziani più numerosi dei giovani. Così non si investe sulle nuove generazioni. E le giovani mamme sono penalizzate. Mancano, ad esempio, 30 mila posti per bambini in asili nido. Siamo il paese che invecchia più rapidamente nel contesto di un continente che ha il più basso tasso di nascite a livello planetario. È un ben triste primato mondiale, quello che abbiamo conquistato. Solo Spagna e Grecia sono nostri concorrenti. Eppure, sembra che la crisi demografica sia vissuta dalla dirigenza del Bel Paese degli ultimi decenni come un fenomeno ineluttabile, come una calamità cui rassegnarsi fatalisticamente perché è impossibile avversare un destino cinico e baro che ha colpito l’Italia. I provvedimenti presi dai vari governi sono sempre stati di portata limitata e privi di un’efficace strategia. La conseguenza è che le famiglie italiane che hanno figli a carico subiscono oggi la pressione fiscale più pesante in Europa e ricevono le prestazioni sociali meno consistenti. In tutti i paesi europei, a parità di reddito, la differenza tra l’imposta gravante su chi non ha figli e chi ha figli a carico è consistente, in Italia invece è assai modesta. Facciamo un confronto. La differenza di imposta diretta su un reddito di circa 30 mila euro per una famiglia con due figli e una coppia senza figli è di circa 6.000 euro in Germania, di 3.500 in Francia, di 1.000 euro in Italia. Beninteso, la Carta Costituzionale sottolinea la rilevanza sociale ed economica delle funzioni della famiglia. L’articolo 30 elegge a dovere costituzionale il compito di mantenere, istruire ed educare i figli. Tutti i documenti di politica economica rimarcano la centralità della cosiddetta risorsa umana. Paradossalmente però è penalizzato l’investimento in nuovi italiani. I figli sono considerati, in buona sostanza, un fatto privato. Ne è prova la logica che ha guidato nella legge italiana l’introduzione della soglia di reddito al di sopra del quale i costi per il mantenimento di un figlio non sono deducibili. Entro quel limite, inoltre, le deduzioni diminuiscono al crescere del reddito. L’uno e l’altro rivelano chiaramente la natura assistenzialistica dell’approccio – aiuto alle famiglie povere – e non un investimento pubblico su tutti i figli, rivelatore di un riconoscimento del valore sociale di un nuovo nato. Come invece avviene in Francia e Germania, dove le deduzioni valgono per tutte le classi di reddito. Non tutti i figli sono uguali, se ne deduce, almeno per il sistema fiscale. E la singolarità delle norme italiane è che il principio dell’universalità, che cioè non ci sono differenze in base al reddito, viene applicata a spese alle quali si riconosce un interesse sociale. Vale perciò per investimenti in bestiame e spese veterinarie, ristrutturazioni abitative, investimenti in macchinari e attrezzature, rottamazioni di auto e moto, contributi a partiti. Insomma, una mucca, un solaio, una fresatrice valgono più di un figlio. Se un lavoratore con un reddito di 25 mila euro spende per mantenere due figli 16 mila euro potrà usufruire di un risparmio d’imposta di circa 1.000 euro, se la stessa cifra viene versata ad una formazione politica il risparmio è triplicato: 3.000 euro. Insomma, ben poco aiuta a mettere al mondo un figlio. Mantenerne uno che resta a casa per venti-venticinque anni costa, a prezzi costanti di oggi, non meno di 190 mila euro (tra i 6.000 e i 9.600 euro all’anno). Per cui si capisce come mai negli anni Sessanta nascevano in Italia 950 mila bambini, mentre oggi siamo a 530 mila. La Francia, invece, il paese che ha investito di più sulle politiche famigliari, ha registrato lo scorso anno all’anagrafe 800 mila nuovi nati. È positivo che con la Finanziaria del 2004 siamo passati dal sistema delle detrazioni a quello delle deduzioni fiscali, afferma Paola Soave, presidente nazionale del Sindacato delle famiglie, associazione particolarmente impegnata sui temi della fiscalità e del lavoro. Le deduzioni devono essere però il meno simboliche possibile e più vicine al costo reale di un figlio. E poi è necessario che tutte le famiglie possano usufruire delle deduzioni. Le agevolazioni fiscali, ovviamente, non sono sufficienti ad invertire la tendenza. C’è una mentalità dominante da cambiare – precisa Paola Soave -. Un figlio non è solo una gratificazione personale ma anche un dono ricevuto. Tuttavia per mutare fattori di tipo culturale è necessario che la donna non debba più scegliere tra lavoro e figli. Il part-time sul lavoro (ma quanto ancora penalizzante), i congedi parentali (ad elevato rischio, nei fatti, per gli uomini che li richiedono), gli assegni di maternità (1.000-1.500 euro) elargiti da numerosi comuni e province, l’incremento degli asili nido e dei nidi- famiglia (soprattutto nel Centro- Nord) per iniziativa degli enti locali sono strumenti e servizi che vanno sostenuti e sviluppati. Ma non basta. Serve una riforma davvero strutturale – sostiene la Soave – che favorisca nuove nascite. Altrimenti, il cosiddetto carico generazionale (nonni e figli) continuerà a gravare sulle singole famiglie. E non si scommette sul futuro, sul rilancio economico, su un robusto e duttile sistema produttivo se le famiglie restano ancora sole. IL DEMOGRAFO BLANGIARDO CAMBIAMO CULTURA Perché in Italia il calo della natalità è vissuto come un fenomeno ineluttabile? Non credo che nelle famiglie sia vissuto come un fenomeno ineluttabile – sostiene Gian Carlo Blangiardo, docente di demografia all’università di Milano-Bicocca -. Le famiglie vorrebbero più figli di quanti ne hanno. Le difficoltà che derivano dal sistema sociale, dal mondo del lavoro, dalla mancanza di servizi per l’infanzia, dallo stesso clima culturale che non riconosce ai figli un ruolo sociale condizionano i progetti iniziali. Due figli li vorrebbero quasi tutti. Dopo il primo, però, incontrano tali ostacoli che rinviano la nascita del secondogenito fino al punto in cui vedono che si può essere genitori anche di un solo figlio. Ma non credo sia una scelta volontaria e consapevole della popolazione italiana. L’ineluttabilità era riferita alla classe politica, dal momento che non c’è un’attenzione marcata e un impegno per favorire la natalità? Diciamo che la società si è appisolata sulle tendenze in atto. Per decenni siamo stati martellati dalla paura della bomba demografica in Italia, di una crescita sostenuta, che avrebbe impoverito le famiglie per la mancanza di risorse per tutti. La crescita zero è diventato perciò un traguardo sociale mitizzato. Ora scopriamo tutti, anche quelli meno del mestiere, che quel risultato sta comportando gravi problemi che minano il futuro della società. La media italiana è di 1,2 figli per donna. Nella provincia di Napoli c’è chi immagina sia diverso. Ma si arriva solo a 1,5. In Danimarca, Svezia e Norvegia i valori di fecondità sono all’1,8. Questo dovrebbe insegnarci molto. Perché resta un tabù parlare di politica demografica? La politica demografica era la politica di Mussolini. Siamo perciò andati avanti per parecchi decenni convinti che non si potesse parlare di politica demografica. In realtà, abbiamo bisogno di essa. Nel tempo, si è cercato di mascherare gli interventi di politica demografica con interventi per i più poveri, con forme di sostegno che hanno avuto grande importanza. Qual è il cuore del problema? Io ho apprezzato, anche se è stata di breve respiro, la decisione del governo di un contributo in denaro alle coppie che mettevano al mondo il secondogenito, il terzogenito, il quartogenito. Era solo un segnale, ma importante per cambiare il clima culturale. Questo è il punto. Il modello non può essere il figlio unico. E le coppie con 3-4 figli non sono necessariamente famiglie di ricchi o di non emancipati. Questa mentalità è una follia, nel senso che noi dobbiamo fare in modo che ci sia il ricambio generazionale. Se c’è qualcuno che non ha figli o ne fa solo uno, è evidente che devono esserci famiglie con tre e quattro bambini. Ma è chiaro che non devono essere penalizzate.

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