Mi chiamano giornalista

Due chiacchiere ed una fetta di panettone in compagnia di Gian Paolo Ormezzano, 79 anni, grande firma del giornalismo sportivo italiano. Storie, avventure, presente e futuro di un mestiere ormai estinto
Paolo Ormezzano

Torino, Parco della Pellerina, casa Ormezzano, ultimo piano. Una copia de La Stampa, fresca di rotativa nella buca delle lettere e una richiesta: «Fammi un favore, prima di salire prendimi il giornale». Gian Paolo, il giornalista sta sulla porta, invita ad entrare per dimenticare il freddo di un’alba torinese che non perdona. Pareti dense di quadri, librerie ripene di manuali,  gonfi giornali, documenti dimenticati, il tavolo della sala grande laboratorio di idee. A casa Ormezzano la carta così refrattaria all’estetica 2.0 sembra aver stratificato anni di carriera così come la roccia sedimentaria che nulla nasconde di sé al mondo. Gian Paolo, il giornalista. In qualità di inviato: 24 edizioni dei Giochi Olimpici (tra estivi ed invernali), 28 Giri d’Italia, 12 Tour de France. In pista dal 1953, prima penna di Tuttosport dal 1974 al 1979, inviato speciale de La Stampa dal 1979 al 1991. Ormezzano è un record vivente: un Mennea del giornalismo (forse non solo sportivo) italiano. Ormezzano è anche scrittore, romanziere, sceneggiatore. “Campionissimissime” è il titolo dell’ultima sua opera in tour nelle maggiori città italiane: uno spettacolo teatrale dedicato alle donne cresciute con lo sport, che hanno reso grande lo sport, omaggio al gentil sesso.

Gian Paolo, tifoso del Torino, fede granata, parla naturale e scrive semplice: punge, ricama, sottolinea, viaggia, ripiglia, sconquassa. Forse non le cronache, ma il modo di raccontare.

«Tutti cominciano con il niente – attacca Ormezzano in punta di sedia – poi vanno avanti 60 anni. Io di anni ne ho quasi 80 anni qualcuno mi piglia ancora sul serio. Cosa volete che vi racconti? Da piccolo volevo fare il giornalista e non capivo il perché. Facevo i compiti ai compagni a pagamento, ero un discreto nuotatore anche se ora la mia stazza rivela i peccati. Portavo i risultati della piscina ai giornali qui a Torino, aggiungevo qualche righa di mia iniziativa. Qualche pazzo mi chiese se volevo provare a scrivere per Tuttosport: ho fatto sette anni da “abusivato non precariato”. Senza il racconto della morte di Fausto Coppi all’inizio dell’anno 1960, tra la redazione mezza vuota e i bagordi di una festa da smaltire non sarei qui a parlare con voi forse avrei potuto essere un abile commerciante di acciughe. Dopo tre settimane dalla morte di Coppi, senza essere assunto dal giornale ero su un aereo per gli Stati Uniti. Destinazione: Olimpiadi invernali 1960. Da allora ne ho fatte 24. Ho avuto tanta fortuna. Non me la sento di spiegare o di insegnare nulla».

«Negli anni ’50 raccontavi con la passione – continua Gian Paolo -, noi giornalisti sportivi eravamo i re del mondo. Ho conosciuto i cantori: Brera, Raschi, Vergani, De Martino, Buzzati e molti altri al Giro d’Italia. Loro non volevano mai vedere i corridori. Tutto inventato quello che scrivevano. L’avvocato Ambrosini mi diceva diceva: “Che importa? Conta la media”. I cantori raccontavano i contorni, i paesaggi, avevano i ristoranti migliori ad un prezzo migliore e forse più salute mentale».

«L’avvento della tv ha ucciso un modo di raccontare. Ricordo un collega alle Olimpiadi di Monaco ‘72 (inutile insistere per scucire il nome) inviato di un giornale: raccontò i Giochi senza vedere nulla. Lo invitai a vedere la finale tuffi Cagnotto-Dibiasi. “Non vengo – mi disse – non voglio rovinarmi il percorso netto”. Così, come un cavallo nelle gare ippiche che non abbatte nessun ostacolo. A quei tempi si accusava il C.I.O. di essere avido in materia di diritti televisivi  adesso la musica è cambiata. Grazie alle nuove tecnologie chiunque vada alle Olimpiadi può trasmettere allo zio dall’altra parte del mondo la finale del torneo di tennis con una telecamera nascosta in un dente cariato».

«Oggi c’è internet. Io dico sempre che non lo seguo se no dovrebbero fare anche toronet, ma è una vile battuta. Gli inviati si stanno estinguendo, il giornalista passa da una trasmissione all’altra. Il racconto sportivo ha ancora un futuro a patto che ci sia un nuovo Hemingway.  Stiamo andando verso il saggismo, l’ottima scrittura, la narrazione di cose che tutti hanno visto e rivisto. Non è una questione di punti di vista o modo del raccontare è un adeguarsi alle pieghe delle nuove tecnologie. Non smettere mai di cercare, di imparare nuove lingue, di conoscere. Le potenzialità sono enormi. Abbiamo perso il valore del contatto umano. Quando andavo all’allenamento della Juventus chiamavo Zoff prima della seduta, avevamo uno spazio nostro e nessun problema. Oggi il calcio è tutto calcolato e programmato».

«Il giornalismo è diventato un genere di sollevamento sociale. I poveri che una volta che facevano i poveri adesso fanno i sognatori  e tra poco i massacratori di quelli che non danno concretezza ai loro sogni. Facciamo loro vedere un mondo dorato alla tv e poi pretendiamo che continuino a dissodare i campi per nostro conto. L’altro giorno un amico mi chiama al telefono e mi fa: “Sono qui su Rai Sport 2 e stanno dando una replica del Processo alla Tappa. Ci sei tu, Raschi, Zavoli, Brera con Montanelli e Biagi che parlate di ciclismo. Altro giornalismo!”. “No – ho risposto – altro sport, altro ciclismo, parlavamo di un certo Eddy Merckx». 

 

I più letti della settimana

Mediterraneo di fraternità

La forte fede degli atei

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons