In mezzo al granturco, la festa

Giornata del Corpus Domini passata con alcuni dei 70,8 milioni di migranti e profughi, tra le piantagioni di mais, al confine tra Myanmar e Thailandia. Un reportage e una testimonianza.

A pochi passi c’è il confine: lo vedo ad appena un tiro di schioppo. Molti lavoratori stagionali e chi vuole fuggire dal Myammar, passano a piedi in questa zona, non certo per la stretta strada. I militari, da ambo le parti, lo sanno e lasciano stare. «Benedetta Thailandia», ho esclamato più volte in questo viaggio: in questi ultimi 70 anni ha accolto tutti: karen, akha, lisu, kachin ed ora pachistani e quant’altri, onestamente e scappando, hanno cercato rifugio nella “terra degli uomini liberi”. Sotto la bandiera thai, tanti hanno trovato un’altra vita o un ponte di passaggio dove passare, per un’altra nazione. Nella regione, dobbiamo ammetterlo, praticamente solo in Thailandia vige ancora un clima tollerante, accomodante e vivibile per i profughi. La polizia naturalmente mette dietro le sbarre tanti che fanno di Bangkok e dintorni il loro rifugio segreto per traffici loschi. Nonostante i cambi di governo, lo spirito d’accoglienza, una delle caratteristiche presenti nel buddhismo theravada, regge e tanta gente onesta trova anche tra queste colline un porto abbastanza sicuro.

Thailandia

Cammino in una piantagione di granturco: mi pare sconfinata e le piante potremmo dire che quasi cancellino la linea immaginaria che divide i due Paesi, Thailandia e Myanmar. Un orizzonte sconfinato di mais, segno di un capitalismo affamato e travolgente, che ordina il taglio di foreste e che richiede, in queste zone, quasi una monocultura e soprattutto tanta gente disposta a lavorare per pochissimi soldi al giorno. Qua e là alcuni lavoratori, con scarsissima protezione d’indumenti adatti, passano tra le piante dando il diserbante e chissà cosa ancora su quelle piante. Mi chiedo come si possibile lavorare senza nessuna sicurezza, a mani nude. Eppure, ognuno di loro ha bocche da sfamare e “deve” lavorare.

Sono venuto qui per queste persone, che da tempo cerchiamo di aiutare con alcuni amici italiani. Il sole è alto in cielo e caldo: sono le 11.30 del mattino. Ieri notte alcuni di questi migranti sono venuti in un’altra catapecchia, distante da qui un paio di chilometri, dove avevamo un appuntamento. Abbiamo distribuito vestiti, cibo e soprattutto un’atmosfera di amicizia. Oggi, in questo luogo sperduto, di fronte a noi ancora persone affamate, spaventate, sole, bisognose di tutto: cibo, capi d’abbigliamento, ma ancora più di ascolto, interesse, «tenerezza», direbbe papa Francesco.

Un’espressione ancora sorge nel mio cuore: «Bisogno di fratellanza universale». Anche un reporter come me, ha un ideale in cuore: dopo tanta sofferenza vista in giro per il mondo, per quanto mi resta da vivere, vorrei trasmettere questa realtà spirituale e professionale: siamo tutti fratelli, siamo tutti vicini. Ed inizio così a parlare a questa gente, circa 50 persone. Mi guardano e non capiscono cosa stia dicendo: «Anche se il mio naso è lungo e la mia pelle è bianca, siamo tutti fratelli e sorelle: noi e voi fratelli». Indicando poi il mio naso e quello del mio collega, anche lui reporter, scoppiano tutti a ridere. Aggiungo tra il divertimento di tutti: «Eppure è vero: siamo tutti fratelli». Il ghiaccio è rotto.

Thailandia migranti

Ci troviamo di fronte ad alcuni dei 70,8 milioni di persone che in tutto il mondo nel 2018 sono scappate dal proprio Paese in cerca di una casa, di un nuovo posto dove vivere e dover poter far crescere i propri figli. Questi nostri amici sono scappati dal Myanmar verso la Thailandia. Alcuni hanno dovuto attraversare la foresta, abitarvi per mesi, passare campi con mine, ma alla fine sono arrivati qui. Mai come in questi ultimi anni, il numero dei profughi aveva raggiunto livello del genere: e questo numero tende paurosamente ad aumentare.

Iniziamo a distribuire le cose che abbiamo portato: molto importante le sardine, a lunga conservazione. Con una scatoletta ci mangia un’intera famiglia. La festa poi è aprire e dividere i grossi sacchi pieni di vestiti che gli amici da Bangkok hanno donato: che risate nel vedere giacchette, gonne e quant’altro, alcuni capi che potremmo definire da sera, essere indossati in mezzo al granturco da quelle signore, la cui pelle è curata non da creme di fama internazionale, ma semplicemente da una corteccia d’albero grattata ed impasta con l’acqua: la famosa crema thanaca, che possiamo ammirare, spalmata sul volto di donne e bambini!

Thailandia 3

Abbiamo passato un bel po’ di tempo in mezzo a questi uomini e queste donne che, potremmo dire, «non hanno un nome», sono tra gli ultimi, i paria, tra coloro che non «non valgono». Investire tempo per arrivare fino a loro è un fatto che gli onora, li sorprende, li interessa e alla fine, dopo più di un’ora, gli dà anche un sorriso sul volto. Non è facile avere motivi per cui far sorridere queste persone. Alcune di loro hanno i mariti lontani, in guerra e devono riuscire ad tirar su due o tre bambini piccoli e tanti altri problemi.

Thailandia migranti 2

Mi accorgo che oggi è il giorno in cui si celebra il Corpus Domini. Difficilmente sopporto le prediche. Oggi, questa gente, queste mamme, hanno predicato per più di un’ora con i loro occhi. Ed io oggi, in loro, ho abbracciato quel corpo, gli ho dato da mangiare, una carezza, una scatoletta di sardine e dei vestiti. Quegli occhi rimangono.

 

 

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