Metamorfosi di un ciclista

Ci sono corridori che esplodono all’improvviso: l’anno prima non li conoscevi, l’anno dopo vincono il Giro. Due anni fa Cunego ha vinto la corsa rosa a 23 anni: arrivato da semisconosciuto, ha spodestato Simoni, compagno strafavorito, vincendo a mani basse. Ci sono corridori così, sfrontati in gara, irriverenti con gli avversari, spigliati davanti alle telecamere. Non hanno timori reverenziali di fronte ai senatori del gruppo, né remore ad impallinare un compagno blasonato, ma in crisi. E ci sono corridori che crescono piano piano: Ivan Basso ad esempio. Non si può certo dire che abbia bruciato le tappe. Il grafico della sua carriera è tutto scritto nei suoi piazzamenti al Tour de France: undicesimo nel 2002, settimo l’anno dopo, poi terzo, infine secondo lo scorso anno. Una linea che sale piano, costante e senza scossoni, nessun picco, nessun exploit clamoroso. Una lunga carriera vissuta all’ombra dell’amico rivale Lance Armstrong, le roi american, uno di quelli come Cunego, capace di vincere un mondiale a 22 anni, e poi sette Tour consecutivi. Uno con l’istinto del killer. Ivan Basso no: se si dovesse indicare un aspetto del suo carattere di ciclista si potrebbe indicare la modestia. Pacato nelle interviste, timido in corsa. Mai una parola fuori luogo, mai una sparata sopra le righe, educato persino nel modo di correre. Fino all’anno scorso Ivan Basso è stato un corridore che si è accontentato. È che, a forza di mostrare modestia, aveva cominciato a credere davvero di non essere all’altezza di vincere qualcosa. Saliva sulla bici alla partenza e la portava al traguardo; lo faceva, per la verità, senza una sbavatura, senza intoppi; ma anche senza un guizzo, un attacco, un rischio. Si accontentava di rimanere con i primi, che non è comunque cosa da poco, e conservare la sua posizione. Di attaccare il re, col rischio di perdere il secondo posto, neanche a pensarci. Uno così sembrava destinato a non vincere mai niente: ed infatti, finora, aveva vinto ben poco, a rispetto di un talento straordinario. Poi, un giorno, incontrò Bjarne Riis, ex-ciclista, vincitore di un Tour, passato a fare il direttore sportivo. Riis lo prende, lo allena, gli cambia la testa. E gli insegna una cosa semplice: per vincere bisogna cercare di vincere. Da quel momento Basso diventa un altro corridore, uno che prende coscienza del proprio talento, uno che allena, a vincere, non solo il fisico, ma anche la testa. Lo si era capito proprio nel giorno del suo calvario, al Giro dello scorso anno, quando sullo Stelvio un’infezione intestinale lo aveva penalizzato con pesanti minuti di ritardo. Stremato, col morale a pezzi, a chi gli chiedeva se avesse pensato al ritiro rispose: Piuttosto salivo sull’ambulanza. Grazie alla nuova mentalità, Basso ha finalmente messo a frutto anche il lungo lavoro svolto in questi anni per ricercare una posizione in sella capace di valorizzare le sue leve. Prima un esperto in Germania e poi la galleria del vento del prestigioso Massachussets Institute of Technology gli avevano configurato la miglior posizione in sella. Quella posizione, in aperta sfida con le leggi della fisica, con cui al Giro si è divorato pendenze del quindici per cento, andandosene in fuga seduto, lasciando sul posto un gruppetto di fuggitivi, allibiti, in piedi sui pedali. Ivan è oggi un pedalatore perfetto: non un fuoriclasse premiato dalla natura, ma un paziente costruttore di se stesso. Nonché un uomo di forti valori: un sacerdote come padre spirituale; una famiglia, che è cresciuta mentre lui pedalava, con due figli, Domitilla e Santiago (poca fantasia in bici, ma tanta all’anagrafe) nato e festeggiato, foto in mano, nel giorno del successo all’Aprica. Oggi Basso è sulle strade di Francia a cercare di far sua l’accoppiata Giro – Tour, una cosa che, nello sport, ti catapulta nei libri di storia. Gli unici italiani a riuscirvi furono Gimondi e Pantani. In compagnia di altri eletti: Anquetil, Hinault, Merckx e Indurain, il gotha del ciclismo di ogni tempo. Armstrong nemmeno ci ha provato. Oggi Basso è un corridore nuovo, che al talento ed alla modestia ha aggiunto la mentalità vincente: per lui la sfida, ritiratosi Lance, appare credibile. Al Giro ha confermato che il ciclismo è sport di testa quanto lo è di gambe. A parità di gambe, vincere è questione di mentalità.

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