Metà di due rupie

Quando Edhi Abdul Sattar era ancora bambino sua madre, per prepararlo al futuro, era solita regalargli due rupie, dicendo: Una la spendi per te, l’altra è per qualcuno che ne ha bisogno. Una raccomandazione che questo pakistano nato in India (prima della divisione col Pakistan) non avrebbe più dimenticato: per tutta la vita, infatti, è andato in cerca di chi poter aiutare. Dagli inizi della sua attività sociale nel 1951, con un piccolo dispensario per i poveri, ad oggi, sono milioni i beneficati da quest’uomo schivo e al tempo stesso affabile, padre di quattro figli, che si definisce nient’altro che strumento di Dio. Con un esercito di 350 mila volontari, ambulanze, elicotteri, aerei, centri di prima assistenza, case per malati di mente e per disabili, cliniche, culle disseminate in città per neonati non voluti, mense per i poveri, assistenza legale per i carcerati e molto altro ancora, Edhi è riuscito a creare, superando difficoltà inimmaginabili, un vero e proprio impero del bene, espressione di una carità unita ad un alto grado di efficienza e professionalità e capace di venire incontro ai bisogni dell’uomo dalla culla alla tomba. Per tutto ciò, nel 2000, è stato insignito del Premio Balzan per l’umanità e la pace, il più cospicuo al mondo tra i premi umanitari con due milioni di franchi svizzeri. L’opera di Edhi – ha detto Sergio Romano nel discorso ufficiale – non è comparabile alle grandi attività umanitarie oggi presenti nel mondo. È un vero e proprio stato assistenziale direttamente organizzato dalla società civile là dove le strutture pubbliche si sono spesso dimostrate inefficaci. In questo senso qualsiasi confronto con la Croce Rossa, Save the Children, Médecins sans frontières, Caritas è letteralmente impossibile. Tutte sono nel loro campo eccellenti, ma nessuna di esse copre un’area di bisogni umani così estesa. Popolarissimo nel suo Paese, Edhi lo è molto meno in Occidente. Viene ora a colmare questa lacuna il documentato libro che Lorenza Raponi e Michele Zanzucchi hanno scritto su di lui e la sua opera, andandolo a trovare nella sua modestissima casa dove vive insieme alla moglie Bilquis, la sua più valida sostenitrice e l’ispiratrice di molti dei suoi progetti, e intervistando a Karachi e dintorni collaboratori e assistiti nei luoghi stessi creati dalla tenacia di questo Buon samaritano dell’Islam. Di sorpresa in sorpresa, l’appassionata e coinvolgente narrazione del loro viaggio in Pakistan diventa luminosa conferma, anche in ambito non cattolico, di quanto Giovanni Paolo II ebbe a scrivere nella lettera apostolica Salvifici doloris: La sofferenza è presente nel mondo per sprigionare amore, per far nascere opera di amore verso il prossimo, per trasformare tutta la civiltà umana nella civiltà dell’amore. L’ESSENZIALE PER EDHI Malgrado all’epoca fosse malato, Edhi non si è sottratto ai due intervistatori, assistito dalla moglie. Bilquis si siede sul letto accanto a lui e lo accarezza teneramente: Questo è il mio leone – dice -. Ora è stanco. Quando lui è in forma, io scompaio. Quando lui è malato, allora io entro in scena, faccio la parte che lui non può fare. Noi siamo il pilastro l’uno dell’altro. (…) Una lunga pausa. Ci sentiamo a disagio per averlo forse ulteriormente debilitato. Poi Edhi apre gli occhi, ci guarda e dice, senza sollecitazione da parte nostra: L’unica cosa che conta davvero è l’amore; il senso originale, profondo di tutte le religioni è nell’amore. Dio non ci chiede altro che l’amore per l’umanità, non il rispetto dei riti. Parla lentamente, a fatica (…); non lascia spazio a nessuna parola superflua e le risposte arrivano dal suo cuore al cuore del problema. Gli chiediamo se ha voglia di parlarci un po’ del concetto che è alla base del suo lavoro. Lavorare per l’umanità – risponde -, servire l’umanità: questa è la religione originale, questo è l’unico compito, quello di cercare di diffondere, seminare l’amore, la pace. C’è solo una cosa che dobbiamo fare: portare la pace. Che cosa hanno portato le religioni? L’idea di spargere l’amore, di portare la pace. (…) In ambiente cristiano lei è spesso stato associato a Madre Teresa di Calcutta. In che cosa pensa che il vostro lavoro e la vostra missione si assomiglino o divergano? La risposta coglie il bersaglio: Madre Teresa è un simbolo di amore, ha fatto tutto nel nome dell’amore. Tutti quelli che fanno questo tipo di lavoro si assomigliano. Fare la volontà di Dio vuol dire questo: amare. (…) Uscendo, ci rendiamo conto che il colloquio con Edhi, così breve e intenso, ci ha come storditi, lasciandoci il sentimento di aver vissuto un momento sacro, diremmo ontologico, qualcosa che va alle radici dell’essere stesso, facendo cadere l’inutilità delle mille domande e dei distinguo sottili che ci eravamo preparati. In un certo senso, non ci sarebbe nulla da domandargli di più: le sue essenziali risposte dicono che l’intero senso della vita può essere racchiuso in poche, semplici parole: amore, amore reciproco, servizio, donazione, generosità, fratellanza, altruismo. (Da: Lorenza Raponi e Michele Zanzucchi, Metà di due rupie. L’incredibile storia di Edhi e Bilquis, gli eroi della solidarietà, San Paolo, pp. 180, euro 14,00)

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