Messico all’avanguardia contro il riscaldamento globale

mucche

Gli studi del Panel Intergovernativo per il Cambiamento Climatico (IPCC) indicano che ogni anno vengono lanciate nell’atmosfera 54 miliardi di tonnellate di gas da effetto serra, responsabili dell’aumento globale della temperatura. Tra questi, in gran parte il diossido di carbonio, CO2. Ben 13 miliardi di tonnellate sono però generate dalla produzione agricola e dall’allevamento, praticamente il 25 per cento del totale.

 

Possiamo dunque dire addio all’immagine “verde” dell’attività agricola, in quanto poco aderente alla realtà. Ciò significa che, inevitabilmente, tra le misure da adottare per contenere l’aumento globale della temperatura al di sotto della soglia dei 2 gradi per l’anno 2100, bisognerà includere anche misure relative all’uso dei terreni e, come nel caso delle altre attività produttive, sempre in relazione a una maggiore razionalità dei nostri consumi.

 

La soglia dei due gradi di temperatura media è stata indicata dagli esperti come quella che dovrebbe evitare eventi climatici maggiormente catastrofici.

 

Niente di impossibile: una maggiore protezione delle selve boscose che restano ed una agricoltura ed un allevamento sostenibili potrebbero non solo diminuire le emissioni contaminanti, come il metano emesso da bovini e ovini – piú letale e permanente del diossido di cabonio -, ma anche ritirare dall’atmosfera quantità ingenti di CO2. Va infatti ricordato che selve e mari sono capaci di assorbire ciascuno circa un 25 per cento delle attuali emissioni di quest’ultimo gas.

 

A dicembre si svolgerà a Parigi il prossimo summit sul riscaldamento globale indetto dall’ONU durante il quale i Paesi dovranno prendere impegni sostanziosi in vista dell’obiettivo di contenerlo (evitarlo è impossibile) intorno ai 2 gradi. E tra le varie misure da adottare ci si aspetta che siano combinati l’effetto della modificazione dei nostri modi di produzione industriale e del nostro stile consumistico di vita, con politiche di riforestazione e protezione dei mari per aumentare la capacità di assorbimento.

 

A marzo é scaduto il tempo per la prima comunicazione dei cosiddetti “contributi nazionali previsti” (INDC, nella sua sigla in inglese) richiesti dall’ONU i quali saranno discussi a dicembre. È stato redatto un dossier in base alle conclusioni tratte da un primo gruppo di sette Paesi, tra i quali figurano grandi emettitori di gas inquinanti, come gli Stati Uniti e l’Unione Europea con i suoi 28 membri, Russia, Norvegia, insieme ad altri di economie modeste e con ridotte quantità di emissioni, come Messico o Gabón.

 

Il dossier è stato preparato dall’Unione di Scienziati Sensibilizzati (UCS, in inglese) dopo aver studiato le proposte formulate dal gruppo di Paesi citati. Non senza meraviglia, si constata che Paesi emergenti come il Messico o poveri come il Gabon stanno prendendo decisioni molto piú coraggiose ed efficaci di grandi potenze come gli USA o la UE, pur contando su meno risorse e con emissione inquinanti molto piú ridotte.

 

Oggi la “ricchezza” dei Paesi in via di sviluppo, come il citato Messico, Brasile, Colombia o quelli dell’area subsahariana consiste in enormi superfici di selva che fungono da riserve di CO2 essenziali nella lotta contro il riscaldamento globale.

 

La UCS ritiene che sia essenziale che i Paesi o blocchi come la UE assumano a Parigi impegni concreti in materia di politiche sostenibili in materia forestale, agricoltura ed allevamento nell’insieme delle strategie globali. Gli USA, secondo il dossier della UCS, sarebbero in grado di ritirare 2,5 miliardi di tonnellate di gas contaminanti adottando le misure adeguate, mentre la UE sarebbe in grado di ritirarne 400 milioni di tonnellate annuali. Paradossalmente, i maggiori emettitori di gas, sono anche coloro che piú possono ridurre tali effetti negativi dell’attività umana.

 

Il problema è che sia gli USA che l’UE, sebbene abbiano proposto di adottare misure per ridurre le emissioni nell’area energetica (la Danimarca ha già annunciato che rinuncerà al carbone per la produzione di energia) o nel settore degli autoveicoli, non hanno presentato alcun contributo in materia di uso delle terre.

 

Quando limitare l’uso del nitrogeno come fertilizzante, migliorare il foraggio per gli animali in modo da ridurre le pericolosissime emissioni di metano, oppure ricorrere a programmi di riforestazione aumentando l’assorbimento di CO2 attraverso i boschi, sono misure che contribuirebbero all’obiettivo generale del summit di Parigi. Ma, purtroppo, la UE annuncia che adotterà politiche del genere a partire dal 2020 e dipendendo da non meglio specificate “condizioni tecniche”.

 

Desta non poca meraviglia che, nonostante una situazione interna delicata dovuta all’escalation di violenza dei cartelli della droga in lotta tra di loro e un diffuso malessere sociale, gli scienziati dell’UCS segnalino il Messico alla testa di proposte coraggiose e creative. Il governo messicano ha infatti preso decisioni concrete, di peso e verificabili. Cominciando dall’obiettivo di ridurre del 25 per cento le sue emissioni contaminanti a partire dal 2026, scendendo fino a 200 milioni di tonnellate annuali.

 

Nel caso di aiuti dall’estero, data la scarsità di risorse, si potrebbe giungere a una riduzione del 40 per cento. Per il 2030 i messicani assicurano che avranno raggiunto la meta di “deforestazione zero”, con inoltre l’applicazione di programmi di riforestazione specialmente nelle zone costiere e il recupero di ecosistemi marini e delle coste che permetteranno di aumentare la cattura di CO2, insieme a politiche di gestione più razionale delle risorse idriche per uso agricolo, urbano ed industriale. Per i responsabili del documento emesso dall’UCS questo Paese latinoamericano è all’avanguardia in materia di lotta al riscaldamento globale.

 

Ma perché ci siamo riferiti all’aiuto esterno per ridurre le emissioni contaminanti? Siamo qui di fronte all’aspetto forse più controverso delle discussioni che avranno luogo a Parigi. Nei summit precedenti si è stabilito che i Paesi che sono emettitori netti di gas da effetto serra, possono in certo modo pagare il “diritto” a inquinare assumendo i costi della riduzione delle emissioni di altri.

 

È in base a tale sistema che un Paese produttore di petrolio come la Norvegia, dotata di una grande industria del legname, annuncia che per il 2050 avrà raggiunto il livello di emissioni zero di CO2, cooperando con donazioni e investimenti nella riduzione delle emissioni altrui. La Svizzera, da parte sua, sta programmando una riduzione del 50 per cento delle sue emissioni attuali, ma la metà di questo obiettivo sarà raggiunto investendo nella riforestazione di altri Paesi.

 

Tale visione, forse influenzata dalla mentalità del mercato portata a tutti livelli, non è esente da critiche: sebbene il ragionamento sia valido sul piano globale, non tiene conto degli squilibri sul piano della industrializzazione dei Paesi in via di sviluppo, che potrebbe essere frenata da un bilancio globale di emissioni che richiede riduzioni proprio sul piano della produzione industriale.

 

D’altra parte se nel bilancio complessivo un Paese figurerebbe con emissioni zero di CO2, regionalmente ciò non sarebbe così e pertanto gli effetti locali continuerebbero ad essere nocivi. La natura, e questo va ricordato, è molto più complessa di un libro contabile dove i capitoli di spesa possono dare un bilancio finale neutro.

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