Mastroianni, 20 anni dopo

Il grande attore de “La dolce vita” rimane vivissimo nella memoria degli amanti del cinema. Il suo insegnamento, le sue debolezze, la sua passione per la bellezza

Sono già vent’anni. Non sembra, eppure tanto tempo è passato da quel 19 Dicembre del ’96. Marcello Mastroianni aveva 72 anni, neanche tanti, e a teatro portava in scena Le ultime lune di Furio Bordon. Al cinema aveva appena lavorato con maestri di livello internazionale: Varda, Wenders, Ruiz e De Oliveira. Avrebbe regalato ancora perle, se il tumore non lo avesse costretto all’addio. Col tempo non era cambiato: sempre leggero, colloquiale, vagamente incantato nel raccontare se stesso e il mondo, le donne e il cinema. Costantemente delicato, semplice, dolce e discreto, ma anche ironico e quasi ingenuo, con impennate poetiche. Tutto facile a sentirlo parlare. Tutto normale, anche le cose gigantesche che ha fatto, familiare, persino romantico, affabulato, quasi casuale: la carriera, le dive, gli amori, le figlie Barbara e Chiara.

 

Era ancora bellissimo nel sorriso sobrio, nei capelli d’argento, nella calma, nella voce soffiata e nei modi misurati. Aveva fuso e modellato magistralmente la forza e la fragilità del maschio moderno, ci aveva passeggiato sopra saltando dai latin lover a uomini lacerati e sofferenti: era stato maschio impotente con Il bell’Antonio di Bolognini, omosessuale malinconico in Una giornata particolare di Scola, addirittura “incinto” in un surreale film di Jacques Demy. Sapeva fare tutto. Era bello ma poteva diventare brutto. Scola lo rese orribile, a volte: sdentato, oppure muratore capoccione trasandato, in Dramma della gelosia. Al contrario, Fellini lo pennellava aereo, affascinante e statuario: La dolce vita, 8e ½.

 

Era il meno italiano dei nostri cinque moschettieri del dopoguerra: Sordi, Gassman, Manfredi, Tognazzi, e lui, appunto, nato in Ciociaria, a Fontana Liri, nel 1924, da genitori di Arpino, anche se quasi subito se ne era andato via, prima a Torino, a tre anni, con la famiglia, e poi a Roma, quartiere San Giovanni. Aveva recitato accanto a donne stupende, alcune le aveva profondamente amate: Flora Carabella, Faye Dunaway, Catherine Deneuve. Le descriveva tutte con aggettivi affettuosi, rispettosi, giocosi. Scioglieva in una battuta ciò che lo portava via dalla leggerezza che amava: «Io e Sofia siamo come Stanlio e Olio – disse una volta a Pippo Baudo – abbiamo fatto insieme dieci film».

 

Era bonariamente dissacrante, liberava con una battuta la sua intelligenza, sbriciolava il mito facendosi amabile vicino di casa. Eppure era straordinario sulla scena, incantevole e magico: «Un attore non deve immedesimarsi del tutto nella parte, un occhio è dell’attore, l’altro è del personaggio». Aveva fatto la gavetta, tanti piccoli ruoli nelle commedie dei primi anni ’50. Battute e pose anonime. Meccanico in Vita da cani, fotografo in La fortuna di essere donna, vigile urbano in Domenica d’Agosto, e poi tassista, tre volte: Peccato che sia una canaglia, Le ragazze di piazza di Spagna, Passaporto per l’oriente. C’era stato anche il teatro, per fortuna, e un regista in particolare, Luchino Visconti, conosciuto nel ’48, quando Franco Zeffirelli parlò al maestro di un ragazzo interessante: «Un giovane bellissimo, dal profilo romano, forse con le gambe troppo magre rispetto al busto, ma per il resto è stupendo. Sarebbe perfetto per uno dei due nobili che seguono il duca in esilio». Lo spettacolo era Rosalinda o come vi piace, di Shakespeare, e Marcello partì per un cammino formativo che passò per L’oreste dell’Alfieri e per Troilo e Cressida, ancora Shakespeare, per Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller e per Un tram che si chiama desiderio di Tennessee Williams, per La Locandiera di Goldoni e per un sacco di Checov, che Mastroianni amava tanto. Lo definiva, parafrasando la commedia all’italiana, l’autore della “commedia alla russa”.

 

Con Luchino Visconti, Marcello maturò, crebbe, scoprì: «Mi ha insegnato buona parte di quello che so – ammetteva facilmente – soprattutto a capire i testi». C’è un anno e un film importante legato al suo rapporto con Visconti: 1957, Le notti bianche, suggestivo, visivamente incantevole. Per la prima volta Mastroianni è il protagonista di un film d’autore, di un melodramma, e per la prima volta è un personaggio sensibile e sentimentalmente tormentato. Dostoevskij lo aiuta a fondere letteratura e cinema, l’alto conosciuto in teatro e il popolare del cinema. Il salto da lì al 1960 è rapido: Fellini lo sceglie per raccontare la degenerazione esistenziale con La dolce vita. «Dino De Laurentiis vuole Paul Newman, ma io lo trovo troppo divo, troppo sicuro di sé, troppo internazionale. Preferirei che lo facessi tu». Inizia un sodalizio artistico che dura fino al 1987, l’ultimo capitolo è Intervista, in cui Federico porta Marcello in una villa dei castelli dove abita l’ormai anziana Anita Ekberg. Per magia ricompaiono le sequenze della fontana di Trevi e del ballo in cui Marcello chiede alla diva: «Chi sei? La luna, la madre, la terra, chi sei?».

 

Fellini adora la morbidezza e la versatilità di Mastroianni, più utile, secondo lui, di Volontè e di Sordi: troppo debordanti, troppo autori. Marcello si lascia plasmare, crea rispettando il genio altrui. Fellini gli chiede in prestito la carne anche per Otto e ½ e La città delle donne, lo rende tenero anziano ballerino in Ginger e Fred: un film sulla miseria della televisione italiana (e del Paese tutto) a metà degli anni ’80. Marcello, per forza di cose, danza per Federico e lo tradisce con altri, costantemente, demolendo con piacere l’immagine troppo ingombrante di qualche suo ruolo. Disarciona il latin lover che La Dolce Vita gli ha cucito addosso accettando Il bell’Antonio, come detto, e se in Divorzio all’italiana, dell’anno successivo, 1961, sembra tornare ai fasti del maschio latino, il tradimento finale della giovanissima Sandrelli lo fa giocare nuovamente con la frantumazione del gallo italiano.

 

Marcello lavora con Petri, Ferreri, De Sica e tantissimo con Scola, altro grande amico e maestro. Vive avventure con tanti registi, giovani e meno giovani: Archibugi, Tornatore, Faenza. Offre loro sapienza umana e professionale. «Mi ha insegnato come affrontare il cinema tra serietà e leggerezza, tra ambizione e umiltà» ricorda l’Archibugi, che nel ’90 lo diresse in Verso sera. Marcello non ha mai lasciato il teatro e si è vestito di bianco, un giorno, prima dei saluti, ed ormai anziano ha iniziato a raccontarsi in modo semplice e straordinario. Ha detto: «Mi ricordo sì, io mi ricordo», in un documentario autobiografico diretto dalla sua ultima compagna, Anna Maria Tatò. Sentirlo parlare, compilare il suo testamento spirituale, ricordare la sua grande avventura, è ancora oggi qualcosa di meraviglioso e prezioso, che ribadisce con precisione quale grande artista è stato Marcello Mastroianni.

 

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